I.
In un'allegoria del disagio, l'elemento
fantastico manifesta lo scandalo, l'irruzione illogica - quasi
insopportabile - nel mondo della realtà. La rottura dell’ordine è
resa con soluzioni incredibili, che fanno leva sull'idea di
possibilità estrema. L'immaginazione corre senza freni, accumula
azioni su azioni. A questo modo, l’inammissibile irrompe
all’interno della legge in un racconto che ignora ogni
concatenazione di eventi. La rappresentazione apocalittica non
conosce coordinate, si alimenta di simbologie enigmatiche: accatasta
immagini amplificate e parole in libertà, artifici esasperati e
accostamenti improbabili. I linguaggi scivolano e si accavallano, in
una letteratura che si rivolge al futuro con l'intento di reagire al
presente. L'odierno è così tanto deprecato da diventare simbolo,
inevitabile grumo di immagini e parole. Si adatta soltanto
all'interpretazione, non più alla comunicazione.
II.
Nell'Apocalisse di Giovanni, il Drago
Rosso ha ceduto il suo trono alla Bestia del Mare. Il Falso Profeta
ha pronunciato parole incomprensibili con voce d'agnello. Babilonia
la Grande, meretrice, ha cavalcato la bestia dalle sette teste.
Precedentemente, all'apertura dei primi Sigilli, i Quattro Cavalieri,
tra squilli di trombe, sono già apparsi sulla scena: bianco, rosso,
nero e verde. Bianco come la salvezza, rosso come la guerra, nero
come la legge, verde come putrefazione e morte. Ognuno è rivelazione
fine a se stessa, illuminazione senza oggetto, sinestesia ostentata:
le conseguenze del loro simbolismo sorpassano, per definizione, le
stesse premesse che li hanno generati. Il poeta della Stagione
all'Inferno, secoli dopo, avrebbe tentato di affidare un colore,
altrettanto arbitrariamente, a lettere e suoni...
III.
Cielo dilaniato, crepe aperte nel
terreno, orizzonte lacerato: è il panorama finale che si presenta ai
nostri sensi nel giorno dell'abbandono e dell'illuminazione. Colmi di
imbarazzante allegria, ripensiamo alle sublimi e terribili forme che
potrebbero sopravvivere sotto il mondo delle apparenze. Testimonianza
non è più comunicazione, non è articolazione quest'ansia che ci
sovrasta, somiglianze non ricerchiamo più nel riesumato campo
dell'intuizione.
Scalpelli e spatole, lime e martelli
accantonano, per un attimo, la loro funzione utilitaria e si fanno
lenti miracolosamente adatte alla visione estatica. Squarciare un
velo per passare. In questa dimensione la scrittura è necessaria, il
disegno sicuro, il tracciato inevitabile. La trama della nostra
testimonianza, soltanto, sarà inscritta in un orizzonte finora
impensabile, in un abisso non ancora sondato dalla nostra percezione.
L'arte supererà, ancora una volta, se stessa? Per il momento,
inizierà col dire addio all'invadenza della storia, all'insistenza
dell'attuale e del quotidiano, all'educato clamore della civiltà...
IV.
Ezio Gribaudo rintraccia immagini
della modernità in movimento tra Occidente e Oriente: dinamiche e
secolarizzate, perdono il loro valore odierno per riconquistarsi una
sacralità. Carovane disorientate, piste insabbiate, cavalieri
disarcionati. Del loro messaggio potrebbero restare, col passare del
tempo, soltanto le radici del verbo, il segno dell'urgenza e, infine,
la testimonianza di una necessità.
Apocalisse: fine, soluzione e, insieme,
rivelazione dei sensi. In questo scenario sconfinato, che trascina i
sogni oltre il confine del mondo, sono le nude sensazioni a
impersonare, guidate dalla memoria e rigorosamente ad occhi chiusi,
ogni ruolo.
Porre sulla tela le coordinate di un
accecamento è, in questo senso, azione scenica di grande coraggio.
Un nuovo alfabeto potrebbe nascere e proliferare da questa geografia,
fino ad amalgamarsi in drammaturgie sensibili, liberate dalle catene
del pretesto letterario.
Il palco è lo spazio di un quadro.
Attori sono lettere e simboli, carte e disegni, figure animali,
algidi paesaggi: il loro destino non è la recitazione, ma il
rilievo. La capacità di comunicare sta nella fisicità che il
regista ha voluto donare loro, mettendoli – letteralmente – in
scena, facendoli indugiare e fluttuare a filo della ribalta.
Le prove sono state svolte in silenzio,
nella penombra, dirette dalla mano dell’artista: unica
testimonianza tattile della nascita dello spettacolo. La scenografia
esige il bianco, il negativo degli occhi chiusi e della cecità.
L’illuminazione colpisce in modo uniforme l’intera
rappresentazione ed è intensa, abbagliante, perturbante.
La vista debutta, come travagliato
personaggio, proprio a teatro, luogo che da lei prende il nome. Gli
spettatori vedono, in cruda luce, ciò che dovrebbero sentire sui
polpastrelli e, allo stesso tempo, si concedono alla consistenza
della visione. Nuove immagini sono create per loro, emerse dalla
memoria dell’artista, arbitrarie e inquiete. Questi segni simulano
la struttura della percezione, recitano la parte degli organi in
un’anatomia della sensazione: i rami riversano linfa sulle foglie
dei sensi; un drappeggio di carte scivola dalla scrivania; un
giardino si risveglia, alla fine dei tempi, nella magia di una
nevicata.
V.
Mariana Paparà scosta la cenere che si
frappone tra la materia e lo spirito. Ciò che resta della fiamma è
il sigillo di un moto di conoscenza, la memoria cicatrizzata di un
dolore. Atto di nascita del linguaggio, il rogo ne decreta la
fisionomia, marchiandone a fuoco grammatica e destinazione.
Lo scudo è forza. La struttura è
resistenza. La tela è protezione: figura archetipica della difesa,
conserva sulla propria superficie le abrasioni e le ustioni della
battaglia. Simboleggia non soltanto sopravvivenza, ma elevazione
conquistata attraverso prove e difficoltà: strumento per riti di
passaggio tra rivelazioni e prese di coscienza. Al di là di essa, un
incubo cova l’assenza della parola, l’esistenza arretra nel
terrore di uno strappo e la storia rimane orfana di ogni sacrificio
che, un tempo, la giustificava.
La rappresentazione è questo
giacimento riconquistato. Al suo interno, la scrittura di una vita,
perduta ogni coordinata e ridotta a segno atrofizzato, resta
intrappolata in sostrati dorati, come se si trattasse di uno
straordinario rinvenimento negli scavi dell’essere.
L’intuizione riproduce uno scatto dei
nervi, la tensione dei muscoli, la faticosa elucubrazione sul
significato di una parola, sulla sintassi di un pensiero. Emergono
sciabolate lancinanti, ferite di striscio, antiche piaghe
rimarginate. Rimangono, in profondità, lividi ematomi, violacee
impressioni di un cupo spasmo, fitte incarnite nel corpo della
creazione.
Ogni individualità viene oltrepassata:
dell’uomo rimane la struttura. Croce, impalcature, linee di forza
si appoggiano a un telo esteriore, estremo riparo nei confronti di
un’agghiacciante verità. La catastrofe è a un passo. Basterebbe
scostare l’ultima pergamena e rimuovere alcuni chiodi arrugginiti
per svelarne il tremendo aspetto scarnificato. Ci restano, invece, la
consolazione di ogni dissimulazione, il senso recuperato di ogni
valore aggiunto, il sofferto e rifondato dominio della realtà.
VI.
Le opere di Ezio Gribaudo e Mariana
Paparà rappresentano i poli estremi di un non-luogo. Dal
tempio dell’essenza, il primo si affaccia a lanciare messaggi senza
tempo all’umanità. La seconda, ferma di fronte all’altare,
modella l’intelaiatura dell’esistenza e ne riproduce le trame.
Inviate da un Parnaso contemporaneo e
affidate ai messi di un impero universale, le lettere di Ezio
Gribaudo hanno perso ogni significato condiviso, per farsi irrequieta
testimonianza di infiniti tentativi di comunicazione. Raggiungeranno
i propri destinatari, ogniqualvolta la loro assolutezza sarà
interpretata come esigenza e opportunità.
Immobili all’ombra del colonnato, le
pelli e le tessiture di Mariana Paparà riflettono il vorticoso
pulsare dei sensi. Ai pellegrini che si avvicineranno curiosi,
daranno la consolante conferma della validità del viaggio
intrapreso.
Nomadismo e stanzialità, leggerezza e
monumentalità, gioco e conoscenza resteranno intrappolate in queste
domande, divenendo indissolubilmente le facce della stessa moneta.
Ivan Fassio