martedì 29 novembre 2011

Un dialogo allo specchio per riflettere su un percorso attraverso arte e società. Massimo Melotti a colloquio con Michelangelo Pistoletto

Una breve pubblicazione dai densi contenuti riesce a coniugare intervista, dibattito e lettura critica dell'opera di uno dei protagonisti dell'Arte Povera

Adamo ed Eva, 1962 - 1987, foto: E. Amici

Un itinerario nella partecipazione sociale e nella condivisione dell'esperienza estetica viene tracciato a partire da una riflessione filosofica sul valore simbolico e percettivo dello specchio. Classicità e contemporaneità si avvicinano in contrasto dialettico, processi creativi fondono vita e simbolismo, l'ombra del Doppelgänger si staglia sul ruolo dell'arte e si propaga all'interno della società contemporanea.
Il volume Opere di Pistoletto. Massimo Melotti a colloquio con Michelangelo Pistoletto, edito da Allemandi & C. in collaborazione con Cittadellarte Edizioni, accompagna il lettore attraverso un percorso a tappe all'interno della produzione dell'artista piemontese. La trattazione delinea i propositi e scandisce i risultati di un'intera carriera: dalle considerazioni sull'autoritratto dei primi Anni Sessanta alla presa di coscienza di una dimensione temporale inscritta necessariamente nell'opera, fino al definitivo abbandono del tradizionale approccio prospettico rinascimentale.
Massimo Melotti, sociologo e critico d'arte, collaboratore di Piero Gilardi e Michelangelo Pistoletto, arricchisce la propria trattazione con citazioni dalle opere dei semiologi Christov Poniam e Jurij Lotman. Proprio da quest'ultimo e dal suo saggio La Semiotica dello Specchio e della Specularità potremmo dedurre alcune chiavi di lettura per il lavoro che stiamo analizzando. Per Lotman, l'opera d'arte – simulazione del mondo – è un testo di struttura complessa, in grado di trasmettere una quantità di informazioni impossibili da convogliare in un linguaggio tradizionale. La società riflette se stessa in questi testi: si osserva allo specchio, nel meccanismo della creazione di senso. L'umanità, nel tentativo di scandagliare e interpretare il significato artistico, dà vita alla cultura. Si tratta di un sistema teorico che poggia saldamente su una base di condivisione e confronto.
Allo stesso modo, l'opera di Michelangelo Pistoletto germoglia da una relazione dialettica con l'identità autoriale per ampliare, nel corso del tempo, la sua portata e per ramificarsi nei più disparati campi del sapere e della società. Alcune delle opere prese in considerazione nel testo presentano, in nuce, questo proposito. Lo sfondo dei primi autoritratti inizia a slacciarsi dal tradizionale valore pittorico per farsi scena monocroma argentata o dorata. Il riflesso delle superfici specchianti prende così vita, presentando l'immagine umana a grandezza naturale e mostrandosi, libero, al dinamismo temporale e spaziale.
Lo spettatore, di fronte all'opera, diventa parte di un nuovo insieme, sempre cangiante. Documentare il lavoro d'artista si pone come operazione strettamente legata all'hic et nunc, al momento della percezione. In questo senso, nel volume, le immagini di Pistoletto e Melotti sono riflesse nelle opere, quasi a significare l'entrata del gesto critico e divulgativo all'interno del mondo dell'arte. Il colloquio che ha preceduto la stesura del libro e la passeggiata all'interno della Cittadellarte da parte dei due autori sono documentati fotograficamente accanto alle opere trattate, come a voler marcare, ancora più a fondo, il sodale tra estetica e condivisione, la sottile linea di confine tra arte e vita.
Ogni superficie specchiante, divisa e posta in rapporto con se stessa, moltiplica la propria immagine. In questo modo, da ogni divisione si può creare una moltitudine: per sempre, riflettendo all'infinito. Nascono, da queste premesse, le Gabbie Specchio (1973 - 1992), creatrici di molteplicità.
Metasimbolo, in quanto capace di contenere e riflettere ogni simbolismo, lo specchio giustifica l'esigenza da parte dell'artista di stabilire pregnanti corrispondenze tra antichità e presente, tra classicismo e avanguardia. La Venere degli Stracci (1967), immagine topica dell'Arte Povera, nasce come opera di tensione dialettica tra immagine mitologica, rappresentata in maniera neoclassica, e l'installazione degli stracci: gli strumenti del mestiere che l'artista utilizza per lucidare le superfici a specchio.
Il testo sottende la stessa tensione: una coraggiosa intenzione di confondersi all'interno della materia trattata, per porsi come strumento relazionale e di confronto. Si struttura come opera aperta, work in progress. Ad una sorta di intervista sul percorso espositivo della Cittadellarte di Biella, si aggiunge un colloquio tra i due autori avvenuto nel luglio 2005 sull'Isola di San Servolo, a Venezia, in occasione della presentazione del progetto Terzo Paradiso. Massimo Melotti, in una riflessione conclusiva, indaga sulle ragioni di un ritorno ad un'arte simbolica e analizza, puntualmente, la nuova dimensione in cui l'artista pone, di volta in volta, l'altro da sé. Getta luce, infine, sull'innovatività del modello di istituzione Cittadellarte e dei suoi Uffizi. Questo progetto pone le basi partecipative di un nuovo Umanesimo attraverso la divulgazione del sapere di diverse discipline: arte, educazione, architettura, economia e spiritualità. Lo specchio mette in relazione l'uomo con l'universo, e allo stesso modo l'arte può assumere non solo le altre discipline ma anche la religione, proprio come Pistoletto scriveva già nel 1978.
Il presente. Autoritratto in camicia, 1961, ph: E. Amici


Opere di Pistoletto. Massimo Melotti a colloquio con Michelangelo Pistoletto
Allemandi & C. in collaborazione con Cittadellarte Edizioni, 2011
Pagg. 85
Euro 14,00
ALLEMANDI - 9788842219637

Ivan Fassio 
(fonte: Exibart)

mercoledì 23 novembre 2011

The Others (4 – 6 novembre 2011) - Lo Sguardo degli Altri

Un resoconto per immagini e suggestioni

Leo Ferdinando Demetz, Colpevole I, tiglio, 
h.65 cm., 2010, courtesy Bianca Maria Rizzi & Matthias Ritter


The Others non è stata soltanto una fiera d'arte giovane e inconsueta, ma anche una nuova manifestazione di ampio respiro culturale. L'orario di apertura, dalle 18 all'una, ha favorito un'affluenza omogenea nelle ore serali, creando un'atmosfera intellettualmente stimolante e, al tempo stesso, disinvolta ed immediata. La concomitanza di eventi musicali, letterari e teatrali – curati dal Circolo dei Lettori di Torino – ha arricchito l'evento fieristico di una connotazione più genuinamente culturale.
Le gallerie, tutte di recente apertura, hanno occupato gli spazi delle celle delle Ex Carceri Le Nuove di Torino. Il significato di questa originale impostazione fieristica può essere rintracciato nelle intenzioni del comitato scientifico e selezionatore, composto da Andrea Brusati (direttore della galleria comunale d'arte contemporanea di Monfalcone), Claudio Composti (direttore artistico della mc2 gallery di Milano), Alessandro Facente (indipendent curator) e Michele Lupi (direttore di Rolling Stone). La volontà è stata, sicuramente, quella di lavorare sulle differenze e sulle peculiarità di scelte curatoriali d'avanguardia, senza perdere di vista una determinata cernita qualitativa e uno sguardo d'insieme sull'orizzonte del contemporaneo: pittura, scultura, installazioni, performance e fotografia. Il modo alternativo in cui particolari progetti si aprono alla contemporaneità e al futuro è stato, già a prima vista, il modus operandi seguito dal comitato per la selezione delle gallerie e delle associazioni no profit.
Alterità come distanza da certezze imposte dalla tradizione e come sguardo periferico che muove verso un nuovo centro: in queste accezioni, il carcere si pone come luogo privilegiato e fortemente simbolico per l'inizio di una nuova manifestazione. La prigione entra - insieme ai concetti di colpa, alienazione ed espiazione - come argomento di riflessione, anche nei lavori presentati da molte gallerie.
Il progetto espositivo della Galleria Bianca Maria Rizzi & Matthias Ritter di Milano ruota intorno ai lavori dell'artista e scultore bolzanese Leo Ferdinando Demetz. Due mezzibusti in legno,”I Colpevoli”, si sporgono, completi di abiti da carcerati anni '30, dalle mura interne della cella e fungono da chiave di lettura di tutto l'allestimento. La decisone di porre la propria rappresentazione artistica all'interno delle spinose tematiche legate alla pena detentiva introduce un percorso di spessore che si snoda con coerenza. I contenuti e lo stile del disegno dell'artista tedesca Kinki Texas danno vita, tra ammiccamenti alla pop art e ad un espressionismo immediato, ai possibili pensieri di serial killer e di alienati della società: altro riferimento a segregazione e disagio sociale. La desolazione presentata nei paesaggi dello sloveno Jernej Forbici indica l'intera umanità come colpevole della distruzione ambientale. Le opere sono ispirate alla regione geografica di Halda, in Slovenia, dove una discarica a cielo aperto e un'industria di alluminio hanno gravemente compromesso il futuro di natura e paesaggio. Nelle opere dell'artista, lande abbandonate si colorano di bianco e rosso: sono gli ossidi di ferro rilasciati dalle scorie. L'opera di Matthias Langer ha ancora a che fare con la colpa. La sua riflessione si sofferma però sul tempo dell'espiazione: l'artista ci presenta le immagini fotografiche della vita di una candela, dello svolgersi del suo ardere. Nello stesso senso, le opere di Luca Gastaldo riflettono sullo scorrere temporale, nella solitudine, della meditazione e dell'osservazione, mentre l'opera dell'artista tedesca Christiane Draffehn, elaborazione digitale su silverprint, significativamente intitolata Caught, pone l'accento sui significati di cattura e privazione.
Rizomi Art Brut, progetto alternativo torinese, si muove nell'inesplorato campo dell'art brut. Questo concetto è stato ideato dal pittore francese Jean Dubuffet per indicare le produzioni artistiche realizzate da non professionisti che creano un'arte fortemente spontanea ed espressiva, operando, tuttavia, al di fuori delle norme estetiche convenzionali (spesso autodidatti, psicotici, prigionieri, persone completamente digiune di cultura). La galleria presenta interessanti opere di Francois Burland, Gianluca Pirrotta e Dan Miller, in bilico tra ingenuità ed espressionismo, riflessione sul segno e arte informale.
La Galleria Paludetto_ Torino presenta una scelta di artisti già presenti in mostre personali e collettive tra le sedi di Rivara, Torino e Roma. Il lirismo della fotografia dell'artista iraniano Arash Radpour, la leggerezza e la ritmicità addensante dell'opera Un Brusio d'Ali di Elvio Chiricozzi, le fascinose sorgenti del fotografo torinese Bepi Chiozzi delineano una mostra di forte impatto simbolico ed evocativo.
Suggestioni cromatiche e simbolismo, giochi d'ombre e luci sono elementi che ritroviamo anche nella produzione fotografica Inheritance di Valentina Merzi e Diambra Mariani per l'associazione KnStudio di Verona.
Fart ArtGallery è una galleria “low cost” torinese: l'idea è quella di raggiungere un nuovo pubblico di appassionati e di collezionisti d'arte, distaccandosi dalle speculazioni delle classiche gallerie e del collezionismo tradizionale. Il nome stesso gioca sul dualismo del significato italiano di “Fare arte” e dell'inglese di Fart, che sta per “pernacchia”: un modo irriverente e, inieme, giocoso, per dare vita a nuovi itinerari nel mondo dell'arte. Lo stesso progetto presentato alla fiera, Forever Jung, nell'ironico gioco di parole che propone, affronta il tema del dualismo attraverso il riferimento alla difficoltà di distinguere il bene dal male. Sono stati esposti dei lavori di Simone Pizzinga, Mattia Macchieraldo, Valentina Argirò ispirati ai tatuaggi criminali o al tema delle maschere.
Per il progetto 4Focus On The Others della casa editrice Prinp Editoria d'Arte, quattro giovani fotografi, in collaborazione con un graphic designer, hanno realizzato un libro/evento dal vivo durante le quattro serate della fiera. Le immagini della pubblicazione documentano l'incontro tra la fotografia, l'architettura e la storia della particolare location delle Ex Carceri Le Nuove, come prima testimonianza dell'inizio di una nuova fiera d'arte. Il fotografo Davide De Martis ha colto alcune espressioni degli spettatori di The Others. Sara Vindrola ha scavato nell'essenza dei luoghi dell'esposizione, tralasciando ogni traccia del passaggio umano. Andrea D'Angelo ha realizzato dei ritratti segnaletici, ispirandosi alle fotografie dei criminali di inizio Novecento e fotografando i suoi soggetti sia frontalmente che di profilo. Vanessa Vettorello ha riletto gli spazi delle Carceri alla luce di un approccio più teatrale, immortalando i personaggi come se fossero imprigionati in un inedito palcoscenico: drammaturgia che mescola ricordo e presente, colpa ed espiazione.

Elvio Chiricozzi, Un Brusio d'Ali, collage su legno, 250 x 500 cm., 2010, courtesy Paludetto Torino


Ivan Fassio
(fonte: Exibart)




martedì 8 novembre 2011

Uno sguardo sull'orizzonte del ritorno. Intervista a Franz Paludetto


Intuizione ed esperienza sono le caratteristiche dell'operare spiazzante di Franz Paludetto. E il suo ritorno a Torino si pone, simbolicamente, come trait d'union tra storia e possibili scenari futuri

La collettiva da poco inaugurata al Castello di Rivara costringe il pubblico a riflessioni che superano un classico approccio tematico. Lo spettatore è spinto a porsi, criticamente, di fronte al processo creativo e alle sue motivazioni. La mostra di Francesco Sena a Torino, nel nuovo spazio di Via Stampatori, si presenta, sotto certi aspetti, come un ulteriore momento di analisi su tecnica e stile. Lo spazio di Roma, con una personale di Daniela Perego, completa questo intero percorso che muove tra immagini archetipiche e ritualità. Ecco le premesse necessarie per avvicinarci al presente del gallerista Franz Paludetto... che ci racconta, in questa intervista, il suo passato e i suoi progetti per il futuro.

I.F.: Il ritorno a Torino sembra legato ad una certa volontà di ripercorrere una strada che, proprio da Torino, si è spinta, nel corso del tempo, fino a Rivara, Calice Ligure, Norimberga e Roma. Una sorta di purificazione, di rito di passaggio? O, forse, un gesto mimetico nei confronti dell'opera di autori come Hermann Nitsch, Alighiero Boetti, Joseph Beuys: artisti che hanno accompagnato il tuo cammino e che, sebbene in modi completamente diversi, proponevano, dopo necessari processi di azzeramento stilistico e spersonificazione, ritorni rituali e percorsi a ritroso?
F.P.: Menzioni, nella tua domanda, artisti storici che hanno contato moltissimo nella mia carriera. Riaprire uno spazio a Torino dopo dieci anni di assenza è per me un ritorno a casa, quasi una ‘chiusura del cerchio’: da venticinque anni dirigo con grandi sacrifici e soddisfazioni il Centro d’Arte Contemporanea del Castello di Rivara e, nel 2010, ho aperto un piccolo spazio a Roma, ma la mia storia di gallerista è iniziata qui a Torino negli anni Sessanta, quando il punto di riferimento – per me e per molti altri - era Gian Enzo Sperone. Stimavo e stimo tuttora il suo lavoro, ma da subito cercai di assumere una mia identità assolutamente indipendente, scegliendo artisti che istintivamente avvertivo affini al mio modo di vedere e sentire l’arte.
Le mie iniziative non sono mai nate con o da un azzeramento. Ognuna di esse è stata fortemente personificata. Potremmo, a maggior ragione, definire quello che mi riporta sulla scena torinese un percorso a ritroso che vuole tracciare una prospettiva per il futuro: ho, infatti affidato, la direzione della galleria di Via Stampatori a mio figlio Davide. Manterrò, da parte mia, soltanto la curatela artistica: una sorta di ‘consulenza esterna’.

I.F.: L'ultima mostra Su Nero Nero, al Castello di Rivara, spinge lo spettatore a considerazioni sul grado zero dell'arte contemporanea. Si avverte, tra i tanti artisti coinvolti nell'evento, la ricerca di una matrice archetipica dalla quale ripartire per un nuovo approccio dialettico alle questioni stilistiche. Quale orizzonte si prospetterebbe, per galleristi e istituzioni, dopo una tale presa di coscienza?
F.P.: Posso assicurarti che la questione che mi poni si presenta ogni qualvolta la ricerca artistica persegua un avanzamento, un autentico progresso: penso, tuttavia, che il concetto di grado zero sia improbabile. Per quanto riguarda la condizione attuale, il grande problema è la mancanza di ideologia politica e sociale. Le istituzioni pubbliche, che hanno il compito di promuovere e conservare, troppo spesso non riescono a tenere il passo; dobbiamo tuttavia riconoscere che le ricerche contemporanee di ogni epoca hanno bisogno di periodi di decantazione.

I.F.: Francesco Sena a Roma nel mese di giugno e, ora, a Torino per l'inaugurazione del nuovo spazio in Via Stampatori. Il suo è stato un percorso che, spontaneamente e attraverso l'uso di diversi supporti e materiali, si è mosso tra la superficie della tela e la scultura. Anche in questo caso, la volontà è quella di presentare un artista che, a prescindere dagli strumenti utilizzati, ci faccia riflettere sulla nascita di ogni processo creativo?
F.P.: Francesco Sena utilizza la cera in maniera versatile, fascinosa, ma la questione non è, appunto, la scelta del materiale. Attraverso il supporto e il medium spesso avviene l’identificazione dell’artista, ma io vorrei porre l’accento su ciò che essi sottendono; qualcosa che ritrovo negli artisti della generazione di Sena, come Sergio Ragalzi, Paolo Grassino, Salvatore Astore.

I.F.: Quali saranno, in breve, i prossimi appuntamenti a Torino, Rivara e Roma? Presenteranno una continuità di tematiche e intenti con le ultime mostre?
F.P.: Per gli spazi di Torino e Roma, che saranno in dialogo costante, abbiamo in programma una serie di mostre di giovani artisti italiani e stranieri. Ad esempio, vorremmo mettere a fuoco le singole identità degli artisti più interessanti che hanno partecipato alla collettiva Su Nero Nero al Castello di Rivara. Per la stagione espositiva 2012 del Castello, visto il successo di quest’ultima mostra, ho in mente un nuovo grande progetto tematico…

Ivan Fassio

martedì 1 novembre 2011

Cronache dell'Esistenza dal Mondo delle Macchine. La Luce Verde dell'Apocalisse di Jean Paul Charles

J. P. Charles, 2011


Un cronista medievale, dovendo raccontare il proprio tempo, si trovava costretto dalla tradizione a cominciare le proprie narrazioni dalla fondazione del mondo o, almeno, dalla nascita di Cristo. Conseguenza di questa consuetudine era una giustificazione del plagio. Ogni scrittore di cronache si poneva sulla scia di un altro storico: riportava stralci di opere, ricopiava interi passaggi, lavorava e interveniva su tagli di altri scritti. Il testo finale, nel suo svolgersi, risultava come un insieme eterogeneo sul quale si innestavano gli interventi dell'ultimo cronista. Un tessuto variegato e complesso: summa che si nutriva di notazioni mitologiche, sapere scientifico, teologia, aneddoti biografici. Il futuro, spesso, trovava spazio nelle credenze catastrofiche del millenarismo: la tesi di una fine del mondo terreno nell'anno Mille, desunta dalla lettura dell'Apocalisse, giustificava, con una conseguente idea di rinascita spirituale, particolari letture politiche e religiose della società.
L'artista Jean Paul Charles, come una sorta di cronista medievale, si avvale di una tradizione, di molti supporti e della volontà di rappresentare il proprio presente, scavando nella concatenazione di eventi che l'hanno generato. Non dipinge: il suo è un linguaggio di immagini, utile a testimoniare esperienze individuali e collettive. L'intervento gestuale ed estemporaneo su cartelloni pubblicitari, fotografie, pannelli e radiografie è il modo privilegiato di proporre una singolare narrazione. Quest'ultima, slacciata dalla classica trama e proposta come una sorta di flusso di fotogrammi, insiste, in una illimitata sequenza mistica, sui concetti di realismo ed espressionismo. Alla concretezza del materiale di supporto, si sovrappongono la spiritualità e il dolore delle immagini create dall'intervento dell'artista. Non vengono proposte particolari letture ideali dei tempi, tutto è giocato all'interno di una grammatica dell'immagine. Una logica della sensibilità si insinua nel flusso delle effigi e dei colori, fino ad accompagnarci nella scoperta di nuove dimensioni. Le prospettive dei paesaggi, le sembianze dei ritratti, il collage di immagini sovrapposte, fotografate, innestate costringono i nostri sensi ad interrogarsi sui concetti di riconoscibilità umana, geografica e storica. Il pulviscolo che scaturisce dalla disgregazione delle figure conserva un minimo di identificabilità, oppure scivola, s'incanala in direzioni sorprendenti e crea nuove illusioni. In questo senso, il futuro è apocalittico perché, da una parte, disumani e catastrofici sono i tempi che stiamo vivendo e, dall'altra, perché sorprendente può essere la rinascita vitale e spirituale che ci attende. L'ottimismo dell'opera emerge dal carattere catartico della testimonianza, dalla lucidità dell'espressione, dalla nascita di nuove, inaspettate stratificazioni simboliche.
Il percorso seguito da questo diario individuale e collettivo si avvale di svariati strumenti (fotografia, pittura, collage, radiografia, fotografia digitale) e supporti (tela, cartelloni pubblicitari, superfici riciclate, carta, vetro, vernici, smalti, acrilici), senza mai individuare un campo d'azione privilegiato o un'unica matrice di riconoscibilità. A partire dalle serie di opere precedenti al 2000, significativamente intitolate Fiore Geneticamente Modificato (FGM), passando attraverso i paesaggi dei Luoghi della Sopravvivenza e dei Luoghi della Contaminazione (2000 – 2005), l'approdo all'utilizzo di radiografie e collages si pone come gesto spontaneo nei lavori di Alienazione Informazione (2007).
Il recupero di manifesti pubblicitari e il conseguente intervento dell'artista con vernici e catrame nella serie di opere Generazione da Salvare (2008), la creazione di volti o figure umane attraverso l'utilizzo di impronte di scarpe in Smettila di Camminarmi Addosso (2010), sono gli antefatti per un ritorno ai colori della pittura nell'assemblaggio di tracce degli ultimi lavori, Apocalypse Green (2011). I trittici di recente produzione indagano la scomposizione dell'immagine, attraverso fotografia digitale, disegno, pittura. Particelle esplose rivelano il nucleo di una natura – umana, vegetale, inorganica – carica di significazioni. Riversano la propria potenzialità simbolica sui sensi dello spettatore.
La luce verde dell'Apocalisse è la misteriosa e tremenda insistenza della vita nel progresso dei tempi moderni. L'opera, attraverso l'intervento dell'artista, viene partorita con dolore dalla macchina che la teneva imprigionata. Maieutica delle sensazioni, l'operazione di Jean Paul Charles riporta alla luce l'enigma dell'esistenza da un mondo meccanicizzato e alienante. Una nuova dimensione sembra scaturire dal lavoro di scavo sul segno e sul colore, un'ombra di rigenerazione si staglia dietro ai contorni delle nuove immagini.


Ivan Fassio

J. P. Charles, Apocalypse Green, 2011