domenica 28 agosto 2011

The Making of Shaman/Showman. Intervista ad Anne Marie Sauzeau

Nell'occasione dell'Alighiero e Boetti Day a Torino, riscopriamo un libro ripubblicato nel 2006 da Luca Sossella Editore: omaggio emotivamente sentito e, al contempo, sguardo critico rivelatore ed innovativo.


Alighiero Boetti, Mappa 1971 -1973, Collezione Anne-Marie Sauzeau, Parigi


Il libro di Anne Marie Sauzeau può essere considerato, stilisticamente, come un modo di far riaffiorare alcuni meccanismi che avevano informato la produzione artistica di Alighiero Boetti. Allo stesso modo, l'attenzione critica spesso si assenta per lasciare emergere, attraverso un mimetismo elegante e discreto, la realtà prodotta dall'artista nella sua originarietà.
La scrittura è intesa come sforzo analitico, razionale e quasi pedagogico, che oscilla tra immedesimazione fictional nelle categorie dei procedimenti artistici di Boetti e testimonianza privilegiata e coinvolgente di un'esistenza.
L'autrice, Anne Marie Sauzeau, prima moglie dell'artista, cita in apertura del testo le parole di Maurice Merleau-Ponty, nelle intenzioni di mostrare “lo strato di significato grezzo” dei gesti artistici nel loro nascere. Proprio da questo autore inizia la nostra conversazione.
I.F.: Maurice Merleau-Ponty scrive, in L'Occhio e lo Spirito: "La visione non è una certa modalità del pensiero, o presenza a sé: è il mezzo che mi è dato per essere assente da me stesso, per assistere dall'interno alla fissione dell'Essere". Il lavoro di Boetti sulle coincidenze, sui “nessi acausali” ha a che fare con questa volontà di studio anatomico della percezione.
A.S.: Spesso interpretavo le opere di Alighiero alla luce della fenomenologia di Merleau-Ponty e lui rideva. Captava le idee ma non voleva essere un intellettuale. L'insistenza di Boetti sui concetti basilari presupponeva che le esperienze sensoriali fossero, prima di quelle mentali, alla base del suo lavoro artistico. Parlava di sei sensi: il sesto era il pensiero, inteso come una vera e propria modalità di percezione. Come nella filosofia di Merleau-Ponty, si trattava di vivere un'esperienza sensoriale e, allo stesso tempo, rielaborarla.
I.F.: La sua scrittura, nello sforzo mimetico che talvolta persegue, può essere considerata come un gioco al raddoppio, come una scommessa e, quindi, potrebbe essere uno sforzo critico capace di ripetersi in altre soluzioni, in altre pubblicazioni sull'artista?
A.S.: Non credo. Non mi sono giocata delle carte, come invece ha scelto di fare Maurizio Cattelan nel testo Infiniti Noi contenuto nello stesso volume. Ho tentato, attraverso commenti discreti, di chiarire certi meccanismi, di proporre un'archeologia dei pensieri nascenti. Lo stesso Boetti mi aveva chiesto di svolgere questo lavoro analitico e, al contempo, mimetico. Per svelare, attraverso la complicità, alcune strutture, e, tuttavia - come sosteneva Alighiero - “tenere nascoste le cose importanti”, conservare un alone enigmatico intorno a certe opere.
Altra cosa è la scrittura creativa di Cattelan. Boetti, senza rivelare il proprio gioco, invitava a continuarlo. Quello di Cattelan e di altri eredi di Alighiero è un lavoro di esegesi, un prolungamento infinito del gioco, un modo di interpretare per non far morire.
I.F.: Alighiero Boetti era affascinato dalle modalità di percezione della superficie, dell'inquadratura, dei segni numerici e alfabetici. Un produttore di realtà (come lo definisce Hans Ulrich Obrist), che riuscì ad anticipare alcune idee della globalizzazione e della grande distribuzione, sarebbe stato stimolato dalle attuali modalità di condivisione e comunicazione? Per quanto riguarda la sofferta dicotomia Shaman/Showman: sarebbe rimasta una calzante definizione per l'artista oppure uno dei due lati della personalità sarebbe inevitabilmente prevalso? (l'etica assoluta dell'artista sciamano o lo sguardo critico e beffardo del giullare?)
A.S.: Penso che la sua posizione aristocratica lo avrebbe portato a disprezzare i moderni mezzi di condivisione. Sarebbe stato interessato dalle moderne correnti ecologiste, dalle riflessioni sulla decrescita. Intendeva spesso il progresso come un ritorno all'arcaico. Forse anche il suo “vivere tra opposti”, il suo equilibrismo sarebbe sfociato in una scelta, in un risultato.. Ripeteva che voleva continuare a creare cose belle, che non voleva fare come Rimbaud. Era, allo stesso tempo, affascinato dal fatto che molti artisti erano stati influenzati dall'artigianato e che, invece, le sue mappe ora influenzavano l'artigianato afghano. Talvolta, sosteneva di voler abbandonare l'arte, di voler continuare a diffondere cose belle, diventando produttore e venditore di tappeti che l'artigianato popolare orientale avrebbe potuto realizzare in migliaia di copie partendo dai suoi disegni. La dicotomia Shaman/Showman, la contrapposizione vissuta tra Occidente e Oriente, la sua personalità avventuriera contrapposta ai soggiorni nella tenuta dell'Umbria: tutte queste “sfide” sarebbero sfociate, forse, in una soluzione esistenziale o artistica. D'altronde, ripeteva sempre: “Finirò calzolaio in Guatemala!”


Alighiero Boetti, Shaman/Showman, 1968, photo Anne-Marie Sauzeau



Ivan Fassio


sabato 27 agosto 2011

Un Canovaccio per la Messa in Scena di "Teatro della Memoria 1966 - 2011"

Un Canovaccio per la Messa in Scena di
Teatro della Memoria 1966 - 2011 di Ezio Gribaudo


Ezio Gribaudo, Teatro della Memoria 1966 - 2011, 200 x 200, tecnica mista su tela




Porre sulla tela le coordinate di un accecamento è azione scenica di grande coraggio. Un nuovo alfabeto potrebbe nascere e proliferare da questa geografia, fino ad amalgamarsi in drammaturgie sensibili, liberate dalle catene del pretesto letterario.
Il palco è, in questo caso, lo spazio di un quadro. Attori sono lettere e simboli, carte e disegni, algidi paesaggi: il loro destino non è la recitazione, ma il rilievo. La capacità di comunicare sta nella fisicità che il regista ha voluto donare loro, mettendoli – letteralmente – in scena, facendoli indugiare e fluttuare a filo della ribalta. Le prove sono state svolte in silenzio, nella penombra, dirette dalla mano dell'artista: unica testimonianza tattile della nascita dello spettacolo. La scenografia esige il bianco, il negativo degli occhi chiusi e della cecità. L'illuminazione colpisce in modo uniforme l'intera rappresentazione ed è intensa, abbagliante, perturbante. La vista debutta, come travagliato personaggio, proprio a teatro, luogo che da lei prende il nome.
Gli spettatori vedono, in cruda luce, ciò che dovrebbero sentire sui polpastrelli e, allo stesso tempo, si concedono alla consistenza della visione. Nuove immagini sono create per loro, emerse dalla memoria dell'artista, arbitrarie e inquiete. Questi segni simulano la struttura della percezione, recitano la parte degli organi in un'anatomia della sensazione: i rami riversano linfa sulle foglie dei sensi, un drappeggio di carte scivola dalla scrivania, un giardino si risveglia nella magia di una nevicata.


Ivan Fassio

venerdì 26 agosto 2011

Paesaggio con Figura. Arte, Sfera Pubblica e Trasformazione Sociale

Adesione alla realtà e risposta alle esigenze del presente: è una delle definizioni che potremmo affidare senza esitazioni all'arte dopo aver letto il nuovo saggio a più voci curato da Gabi Scardi.


Paesaggio con Figura è il secondo volume della collana di Allemandi in collaborazione con SusaProject per la ricerca sui linguaggi della contemporaneità. Il testo, adottando un atteggiamento critico dinamico, si propone come piattaforma corale di riflessione sulla relazione tra arte, paesaggio e società. Il composito rapporto sui significati delle varie forme di arte pubblica coinvolge artisti, critici, storici dell'arte, curatori, organizzatori di eventi.
Una possibile elaborazione comunitaria di ogni genere di intervento artistico viene analizzata da diversi punti di vista. La rivitalizzazione di un approccio monumentale per la scultura, i concetti di Arte Ambientale e Land Art, la componente autoriale di operazioni sociali e il significato di interventi site specific vengono esaminati attraverso l'esemplificazione di esperienze artistiche a livello nazionale e internazionale. L'intenzione è quella di tracciare un'esauriente prospettiva sul panorama contemporaneo e di comprendere nuovi possibili campi d'azione.
L'approccio progettuale e contestuale alla materia si colloca come leitmotiv di ogni intervento. Significativi esempi della Public Art degli ultimi due decenni sono interpretati tenendo conto delle modalità di intervento in situazioni di conflitto, della possibilità di valorizzazione territoriale, della valenza a livello relazionale tra gli abitanti di spazi marginali o periferici.
Bert Theis, coordinatore di due progetti attivati nel quartiere Isola di Milano, fa leva sul concetto di arte fight specific: lavoro artistico di attivismo teso a ricavare spazi di libertà all'interno di aree socialmente e politicamente conflittuali e a contrappore una trasformazione sociale dal basso ai progetti politici di gentrificazione.
Jochen Gerz, artista tedesco, propone un'interessante interpretazione del concetto di autorialità. Analizzando il valore sociale di due sue opere nelle città di Amburgo e Saarbruck, si sofferma su una visione dell'arte che privilegia la dipendenza dal contesto e l'accettazione dell'alterità alla tradizionale categoria di libertà d'espressione dell'artista.
Premessa di ogni saggio contenuto nel volume è l'accezione di un'arte che abbandona espressioni estetizzanti, prettamente liriche, per farsi enunciazione di presa di coscienza o di volontà di cambiamento all'interno di un particolare contesto. La possibilità di progettare opere in un luogo pubblico abbandona il mero fine di rivalutazione paesaggistica per collegarsi alle esperienze esistenziali della popolazione e alle dinamiche di continua trasformazione della città.
Il dibattito, introdotto da testi di Catterina Seia e Gabi Scardi, si pone come fitto reticolato di corrispondenze tra gli interventi degli autori coinvolti. Analizza il tessuto dell'arte pubblica – nel suo proprio valore etimologico di textus – stabilendo, all'interno del discorso stesso, una forte sinergia tra teoria e prassi. Contribuisce, in rapporto mimetico alle tematiche che tratta, a contestualizzare in ambito teorico un approccio innovativo e aperto nei confronti dell'arte intesa come consapevole e utile esperienza esistenziale di una collettività.


Ivan Fassio




Gabi Scardi (a cura di)
Paesaggio con Figura. Arte, Sfera Pubblica e Trasformazione Sociale
Umberto Allemandi & C. / SusaCultureProject
I Edizione: maggio 2011
pagg. 290
euro 30,00
Contatti: Tel: +39.011.81.99.111 - Fax: +39.011.81.93.090


giovedì 25 agosto 2011

Ezio Gribaudo. Viaggi della memoria. Mirò, Savinio, De Chirico, Fontana, la Biennale di Venezia del 1966 e i Teatri senza tempo.

Lucca, Lu.C.C.A. (Lucca Center of Contemporary Arts) - fino al 28 Agosto 2011


L'opera di un artista testimone del Novecento, la sua collezione.. E l'opportunità di scoprire un film che ci mostra la New York all'epoca della prima mostra di Lucio Fontana negli Stati Uniti.





La mostra antologica che, a Lucca, presenta il percorso artistico di Ezio Gribaudo, accoglie, a contrappunto dei lavori del maestro torinese, alcune importanti opere della sua collezione: Giorgio De Chirico, Alberto Savinio, Jean Dubuffet, Lucio Fontana, Hans Hartung, Asger Jorn, Pierre Alechinsky, Karel Appel, Joan Mirò, Henry Moore, Antoni Tàpies.

I Bianchi di Ezio Gribaudo trovano adeguata collocazione accanto ai disegni a matita, altrettanto silenti e sospesi, Le Sibille e Mobili nella Valle (1936) di Giorgio De Chirico. Alcuni lavori su carta buvard risalgono al Premio per la Grafica della Biennale di Venezia 1966. I Flani e i Logogrifi documentano la ricerca sperimentale su diversi materiali, la graduale appropriazione di un segno originale attraverso l'esplorazione delle possibilità della tecnica mista e del collage, dell'intervento estemporaneo sul ready made.
Accanto ad un'opera di Alberto Savinio, Le Navire Perdu (1928), troviamo due diverse versioni di Navire (1975-78) di Gribaudo, che riprendono le forme vaghe e surreali del primo e le trasportano in un bianco altorilievo sognante composto di polistirolo e flani tipografici.
Le due opere di Jean Dubuffet, la cui mostra si è da poco chiusa negli stessi spazi del Lu.C.C.A., arricchiscono un percorso documentato dalla presenza di opere dei grandi maestri del secolo scorso. Questa mostra è testimonianza di una ricerca che approda per gradi al non figurativo, passando dall'avanguardia storica all'informale, dall'espressionismo all'astrattismo.
Gli studi formali Idee per Scultura (1932) di Henry Moore, per il quale Ezio Gribaudo aveva curato il volume Taccuini Inediti per le Edizioni Fratelli Pozzo, forzano l'osservazione del corpo umano e piegano figure antropomorfe in immagini simboliche di disagio e dolore. Colpisce il fatto di trovarli esposti insieme a due sculture-totem di Ezio Gribaudo realizzate in polistirolo nel 1969: l'enigma dei logogrifi viene elevato a statua, monumento imponente a prima vista, leggero materialmente, perturbante nell'infinità di significati che veicola.
Osseviamo ancora, in questa mostra, i maggiori esponenti del gruppo CoBrA nei vigorosi cromatismi e nell'espressionismo vitale che li caratterizzano.
Le opere Teatri della Memoria di Gribaudo ripercorrono, invece, in tecniche miste su tela, la sua carriera artistica. Un alternarsi di stili, un'estenuante ripresa di immagini e colori che si configura come work in progress, esercizio di una vita intera: lavorìo dell'artista sempre presente nella continua nascita dell'opera d'arte.


Lucio Fontana, Concetto Spaziale, New York, 1961
L'opera di Lucio Fontana documenta la sua prima mostra a New York, nel 1961, alla Galleria di Martha Jackson. È stato presentato il film Viaggio a New York, girato all'epoca da Ezio Gribaudo e Francesco Aschieri e musicato da Paolo Cipriano e Valentina Mitola. Proprio in quell'anno, Gribaudo aveva curato il volume di Michel Tapiè Devenir de Fontana per le Edizioni Fratelli Pozzo. Questo viaggio era stato l'occasione per conoscere da vicino i grandi protagonisti dell'Action Painting: da Hans Hofmann a Clyfford Still a Yves Klein.

Nel film si possono riconoscere gli artisti Fontana, Conrad Marca-Relli, il gallerista Samuel Kootz, Salvatore Scarpitta, Norman Bluhm.




Ezio Gribaudo e Martha Jackson, 1961, New York 





















Ivan Fassio

Dal 10 giugno al 28 agosto 2011
Ezio Gribaudo. Viaggi nella Memoria: Mirò, Savinio, De Chirico, Fontana, la Biennale di Venezia del 1966 e i Teatri senza Tempo
a cura di Stefano Cecchetto e Maurizio Vanni
Lucca
via della Fratta, 36
tel: 0583 571712 Fax: 0583 950499
mar-dom 10,00 – 20,00
ven 10,00 – 24,00
chiuso lunedì
Catalogo: Silvana Editoriale, 20 euro
ingresso: intero 7 euro; ridotto 5 euro

Ivan Fassio


mercoledì 24 agosto 2011

Padiglione Italia 2011. Quale orizzonte plausibile?


Sarà possibile – per lo spettatore del Padiglione Italia – ritrovare una sorta di percorso, una residuale traccia di volontà di scelte ed accostamenti?

Piero Guccione - "Luna Mattutina" - 2009/10 - Olio su tela -150 X 98 - photo Arthemisia


Al di là delle inevitabili provocazioni spettacolari e della sequela di rimostranze degli ultimi giorni, occorrerebbe tentare di individuare indizi per eventuali letture critiche o, almeno, alcune ricorrenti caratteristiche tra le opere presenti al Padiglione Italia della 54ma Biennale di Venezia.
Una parte del comitato di critici si è dimessa dopo la conferenza stampa del 5 maggio e anche un gruppo degli artisti invitati sta lasciando la Biennale: Alfredo Pirri, Marco Tirelli, Rossella Biscotti e molti altri. Negli ultimi giorni, Luigi Serafini, il creatore del Codex Seraphinianus, per cui Sgarbi aveva già scritto importanti testi, si è ritirato definendo “berlusconiana” la cura del Padiglione.
Nella conferenza di presentazione, Vittorio Sgarbi citava Non chiederci la parola di Montale e gli Esercizi di Ammirazione di Emil Cioran, insistendo sulla linea del progetto L'Arte non è Cosa Nostra: disinteressata e aperta a suggestioni di vario genere, slegata dall'istituzionale apparato della critica d'arte. In questo inizio secolo, considerando le citazioni di Sgarbi, il mondo dell'arte sembrerebbe incapace di precise scelte e sarebbe inscrivibile nella chiusa montaliana “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Allo stesso modo, la scelta di criteri e parametri sarebbe delegabile ad intellettuali di diversa formazione, dai quali lo spettatore potrebbe trovare nuova linfa per un diverso approccio. In un'intervista di pochi giorni fa, Luca Beatrice lodava l'atteggiamento da neofita che Sgarbi – così legato all'idea di contemporaneità come categoria atemporale, subordinata ai concetti di fruibilità e comunicazione – potrebbe concedersi nei confronti dell'arte.
Partendo da queste premesse, molti si sarebbero aspettati un criterio di scelta che privilegiasse un approccio figurativo all'espressione artistica rispetto ad un approccio informale o performativo. In effetti, prescindendo dal numero di invitati che continua ad aumentare e a coinvolgere esponenti delle più svariate tendenze, i nomi di personaggi legati o assimilabili alle grandi esperienze avanguardistiche del Novecento mantengono una corposa presenza. Potremo osservare, in questo senso, il “Classicismo tradito” di Nicola Samorì, nella sua caratterizzante tensione tra tecnica pittorica e struttura formale. Enzo Cucchi presenterà dei disegni inediti. Avremo a che fare, ancora, con un'arte della riappropriazione del mito, dagli stretti legami con letteratura e poesia, tesa tra intensità figurativo-simbolica e sperimentazioni sulla percezione della luce. La scelta di Sandro Chia, già al Padiglione di Luca Beatrice, segnala un indizio di continuità con la Biennale 2009. Segnalato da Giorgetto Giugiaro, Ezio Gribaudo, a quarantacinque anni dal Premio per la Grafica alla Biennale del 1966, presenterà un'opera che concilierà il suo recente lavoro sulla memoria con le lunghe sperimentazioni degli anni Sessanta riguardanti i valori simbolici di lettere e segni e l'evanescenza del colore bianco. L'opera di Leonardo Cremonini, scomparso nel 2010 e segnalato a questo Padiglione da Marc Fumaroli, sarà un'opportunità per riconsiderare un importante artista che sviluppò una pittura originale, in bilico tra resa della sensazione e slancio irrazionale e immaginifico. Piero Guccione, per il quale Sgarbi ha curato una monografia per Skira nel 2008, è pittore di contemplazione, che gioca, nelle sue creazioni paesaggistiche, con straniamenti percettivi, anomalie dei punti di vista e contrapposizioni tra fluidità e intensità cromatiche. È notizia recente, invece, che potremo osservare l'astrattismo di Carla Accardi: è stato, infatti, stilato un nuovo elenco di artisti. Da un'altra lista, il Fondo Sgarbi, il curatore si riserverà di invitare ancora altre personalità del mondo dell'arte.


Ivan Fassio

Fuori fuoco


                                                       
Marco Memeo, Il Rumore dell'Acqua, 18 x 25, 2010
                        a Marco Memeo





















Il più grave tra ogni sforzo l'agonia di sé: gioioso torpore nella creta del mondo.

Occorre librarsi dal suolo prendere il volo a due mani e portarlo al comando

Come per bambino che sfiorare il lampadario voglia già il volere è un'essenza

Ché ormai luce - i colori sono entrati nel corpo - un miraggio d'oasi dispensa

E gli occhi non sono presenza ma puro scenario: claudicante abbaglio d'estasi.

Paesaggio fuori fuoco s'offre a noi perdenti a viaggiatori innocenti sognatori

Quando nel centro del dolore si volge il desiderio - retaggio d'ogni antico sfacelo -

In desolato sguardo su scorci spopolati inumani spazi: siano palazzi nuvole o cielo.


Ivan Fassio




Marco Memeo, Il Rumore dell'Acqua (serie), 18 x 25, 2010
Marco Memeo, Il Rumore dell'Acqua, 18 x 25, 2010

domenica 21 agosto 2011

Marco Memeo. Una Simbologia della Percezione





Ci dovrà pur essere, per qualsiasi aspetto del reale, – questo si domanda, ad un certo punto, ogni artista moderno – la possibilità di una soluzione poetica? Si dovrà pur mostrare, prima o poi, una via d’uscita che possa inglobare tutti i frammenti in un insieme finito, che possa integrare situazioni apparentemente disorganiche in una tassonomia, in un catalogo che non ammetta residui, eccezioni? Il modo per uscire da questa impasse – almeno a partire dalla pop art – non consiste nell’accumulare scientificamente dati coerenti, ma nel creare delle regole arbitrarie che consentano di presentare la propria opera come una grammatica di compiuta perfezione, come un brandello di certezza isolato agli angoli di una realtà caotica.Per Marco Memeo l’arte è sicuramente strumento di conoscenza, di indagine, ma anche testimonianza soggettiva, spesso sofferta, che si presenta al pubblico nelle sue infinite contraddizioni e imperfezioni. Le regole del gioco della sua pittura hanno quindi tratto sostentamento sia dai modi della conoscenza, dell’apprendimento, sia dal difficile equilibrio tra impressioni personali, emotive e percezione comune, sociale.
Per questo motivo, le sue prime opere si proponevano organizzate come una sorta di catalogo – significativamente intitolato ABCittà – in cui i paesaggi urbani della periferia apparivano allo spettatore ordinati in modo enciclopedico, quasi come tentativo di scovare una regolarità e un senso nella rappresentazione di architetture stranianti, di scorci industriali o di vetrate e cartelloni pubblicitari. Il tentativo era quello di presentare una sintassi compiuta, con le sue regole e le sue eccezioni, che – come in un gioco – fornisse non soltanto le chiavi di lettura del mondo rappresentato, ma ne andasse a scovare gli angoli meno frequentati dall’assuefatto occhio dell’indaffarato cittadino contemporaneo. Di conseguenza, già nei primi quadri della sua produzione, la rappresentazione tendeva ad organizzarsi intorno a segni catturati – spesso casualmente – nella loro arbitrarietà. Come lettere che si fossero slacciate, assolutamente, dalla logica di un alfabeto. Come se i tasselli, gli stilemi topici del paesaggismo ottocentesco avessero iniziato a non riconoscere più l’organicità della prospettiva che li legava e giustificava. Si affacciavano, pian piano, sempre più irriconoscibili, ed emergevano sulla tela, isolati, amplificati, ingranditi fino a sfocarsi, svincolati naturalmente da ogni volontà omologante e rassicurante.
All’inizio, lo spettatore meno accorto poteva ancora pensare a tentativi di rappresentazione originale, di provocazione per la scelta dei soggetti, ma Marco Memeo, consapevolmente vicino ai grandi maestri dell’avanguardia storica piuttosto che a Gerhard Richter o ai grandi iperrealisti Americani, se ne distaccava già nelle intenzioni, mostrandoci la sua testimonianza come una traccia, come un testo monco, le cui regole fossero riuscite ad aggirare l’ostinata presenza di un soggetto creante, di un demiurgo. Il suo stile si configurava, da subito, come una visione periferica, sia dal punto di vista tematico, sia per i modi di scelta degli oggetti rappresentati, e, ancora, per quanto riguarda gli aspetti puramente formali della sua pittura. I temi erano quelli della grande città, delle periferie in cui l’artista era cresciuto, dell’architettura degli Anni Sessanta e Settanta: sottintendevano l’alienazione, il disagio della civiltà contemporanea, la speciale solitudine che s’annida nei quartieri operai. La ricerca dei soggetti avveniva casualmente attraverso l’uso della videocamera o della macchina fotografica, la scelta – per suggestione – si posava sugli angoli meno frequentati, su squarci di architetture, semafori e strisce pedonali che riuscivano a creare improbabili geometrie, e che mostravano dell’urbanizzazione il volto spietatamente inumano. La cristallizzazione della città come paesaggio a sé stante, estraneo alle regole della natura, con la sua logica utilitaristica, emergeva dalla rappresentazione opaca, da una pittura che iniziava a intorpidirsi nelle acque stagnanti dell’incomunicabilità, dell’impossibilità di una rappresentazione consolante o condivisibile.
La serialità con cui le opere si presentavano annullava l’importanza di titoli e di indicazioni geografiche per giungere a una vocabolarizzazione di non-luoghi che, secondo l’originaria definizione datane da Marc Augé, ne catalogava le infinite e reiterate caratteristiche di anonimato e di stereotipazione. A questo apporto criticamente – e ironicamente? – educativo e didattico s’accostava, in modo consequenziale, la forte tematica di denuncia che emergeva dalla rappresentazione degli spazi nella loro elementarità e dalla disparita dell’emotività e della soggettività dell’artista.
Più che ricondurre la pittura di Memeo a illustri precedenti nell’ambito dell’arte figurativa, si è tentati di accostarlo a correnti letterarie e teoriche che della percezione della città e del paesaggio hanno fatto oggetto di studio e riflessione. Partendo dal famoso verso di Hölderlin Poeticamente abita l’uomo, che, mirabilmente commentato e fatto proprio da Heidegger, ha aperto la strada a nuove considerazioni sugli studi di urbanistica e paesaggio, si può arrivare agli scritti e alle considerazioni sull’utilitarismo in architettura di Adolf Loos, agli stretti legami tra studi di forme nell’ architettura e nel design che hanno accomunato varie correnti artistiche d’avanguardia del Novecento. Ancora meglio, le teorizzazioni che stanno alla base dell’arte di Memeo ci riportano ai paesaggi narrati dalla grande letteratura del Novecento: le città inermi e reificate sotto lo sguardo di Fernando Pessoa e dei suoi eteronimi, le considerazioni astratte e poeticamente toccanti de Le Città Invisibili di Italo Calvino, l’urbanistica desolata che scopriamo nel minimalismo Americano di David Leavitt e, soprattutto, di Raymond Carver. Non a caso, una delle più importanti mostre di Marco Memeo a Roma aveva come titolo – parafrasando appunto un celebre verso dello scrittore statunitense – Di che cosa parliamo quando parliamo di Carver. Dei racconti del narratore, i quadri di Memeo sono l’impeccabile contrappunto, mostrano le scene sospese, le scenografie comodamente intercambiabili in cui i personaggi e le situazioni di Carver – ugualmente svuotate di episodi significativi a livello di rappresentazione – potrebbero essere calati. Dall’apparente semplicità del mondo carveriano e delle tele di Memeo scaturisce sempre, ancora, un pesante alone di inquietudine; un sortilegio espropria oggetti, paesaggi e personaggi delle loro singolarità ed individualità, rendendoli parte di un mondo sospeso, in cui la mano del creatore s’allontana sempre più, divenendo quasi invisibile alle nostre coscienze.
Il pittore, in questa terra desolata, nella città irreale, riesce a darci testimonianza sfocata di luoghi inospitali, osservati con l’occhio spento del reietto, dell’emarginato, del malato. La sua individualità poetica si scioglie nella prosa di un mondo plasmato dalle leggi del consumo, della comodità, della velocità. In questo senso, l’artista giunge a un sempre maggiore livello di astrazione e il sipario che prima si apriva su elementi riconoscibili, inizia, lentamente ma con un’assiduità crescente in modo esponenziale, a cedere la scena alle più improbabili forme geometriche che l’umanità genera nei più ascosi anfratti delle città spersonificate. Si tratta quindi di un cammino che approda, logicamente, all’abbandono della pittura come rappresentazione.
Nella mostra organizzata dal consigliere Marcello Coppo ed allestita nel Palazzo delle Entrate ad Asti nel settembre 2009, Marco Memeo presenta una sorta di percorso che giunge al traguardo fino a qui anticipato. Le opere che ci presenta sono tutte di ugual misura (110 x 110) – altro tratto della loro speciale serialità – e sono caratterizzate da uno stile, che, nell’ostentato realismo che talvolta persegue, mostra scorci e paesaggi presentati quasi come simboli. Nella loro densa opacità, sono già aperti al maggior numero di interpretazioni: pronti ad essere colmati dal senso che la percezione di ogni spettatore può dare loro. Anche i titoli non vogliono influenzare per nessun motivo l’incontro che il pubblico avrà con le opere e mostrano ancora caratteristiche tassonomiche e stranianti: Tre Balconi, Dettaglio Torre, Una Finestra, Due Finestre, Torre 1, Torre 2
Si tratta di un’estetica della percezione che cerca e trova un pubblico aperto alla messa in discussione e all’analisi dei propri punti di vista e dalla propria sensibilità. Non ci resta, quindi, che farci oltrepassare dalle sensazioni che l’artista – già lontano dalla propria creazione come lo erano gli antichi dei, demiurgo assente, ormai attonito spettatore d’altri paesaggi – ha lasciato emergere nell’opera.


Ivan Fassio




Linee di Confine e Percezioni del Reale – La Pittura di Claudio Molinari

Forse non sono molto umano. Il mio desiderio era di dipingere la luce del sole riflessa sul muro di una casa” Così scriveva, al termine della carriera, Edward Hopper. Le sue opere, che hanno rappresentato tanto il paesaggio della metropoli quanto momenti della vita della provincia Americana, non mirano certo alla creazione di effetti psicologici e non cercano di muovere l'osservatore verso possibili interpretazioni simboliche. Si tratta, pertanto, di una pittura che si concentra sui segni stessi, raccolti nella loro opacità, esplorati nelle possibilità di percezione che offrono al fruitore.
I quadri di Claudio Molinari esposti al “Wine Bar La Dolce Vigna” di Agliano Terme approdano, ad un primo sguardo, verso alcune di queste istanze. Le torri, i caseggiati, le architetture, i paesaggi presentati sulle tele hanno abbandonato ogni punto di vista umano e si stagliano in un massimo di oggettività straniante. Ogni facile emotività è bandita e la rappresentazione si regge sull'espressione di un momento tanto unico e irripetibile quanto impossibile.
Gli argomenti di questa pitture possono apparire all'osservatore come parti di un catalogo che, invece di mostrare caratteristiche meramente architettoniche o paesaggistiche, metta in luce la carica di possibilità percettive che emerge dall'essenza, dall'irrealtà isolata in cui sono colti.
Il lavoro del pittore si incentra così sullo studio delle forme, dei punti di vista, delle prospettive e su un trattamento del colore che predilige l'accentuazione di tonalità piene, la delineazione di contrasti, l'utilizzo raro di sfumature in funzione alienante. I modi di questa arte non ammettono visioni panoramiche realistiche e coinvolgenti né, tantomeno, impressioni compatte che trattino la materia nel suo semplice apparire fenomenico.
Non ci sono di aiuto soltanto le suggestioni iniziali di Edward Hopper: dopo attente osservazioni, infatti, ci si può rendere conto del filone tematico in cui l'artista, a buon diritto, rientra.
Franz Marc, l'esponente illustre del “Blaue Reiter”, voleva raggiungere, nei suoi famosi quadri di animali e nelle sue opere più astratte, “il lato più intimo e spirituale della natura” e rendere le sue creazioni “di colore puro”. Mirava ad un rappresentazione ridotta all'osso e giungeva, nel suo ultimo periodo, al tentativo di dipingere sempre attraverso l'uso di forme semplificate, essenziali. Allo stesso modo, Molinari giunge spesso alla scomposizione di architetture in parti elementari, trattate con colori che si presentano compatti, isolati nella loro scabra semplicità. L'idea è quella di presentare ogni struttura come nuda, pura, presentata nel suo valore più intimo.
Come non pensare al precisionismo Americano di Charles Sheeler, alle sue visioni metropolitane, ai suoi punti di vista oggettivanti e distaccati su agglomerati urbani, su costruzioni industriali, su ciminiere fumanti. Come non annoverare, ancora tra i grandi precedenti, la fotografia analitica e critica di Alfred Stieglitz, l'esaperato realismo pittorico di Isaac Soyer, l'uso dei colori in alcuni quadri di Joseph Stella. L'esempio dei paesaggi delle grandi avanguardie storiche ha sicuramente segnato lo stile di questa pittura. Si pensi a Il Paesaggio Urbano con Ciminiere di Mario Sironi (1920) o ad alcune teorizzazioni di Umberto Boccioni sugli studi delle forme.
Partendo certamente da uno studio accurato delle correnti avanguardistiche e della storia dell'arte Italiana – Paolo Uccello tra gli altri, che, non a caso, tanto aveva influenzato l'uso dei colori in Charles Sheeler, qui appena citato – Molinari ha creato uno stile singolare, sia per la scelta dei soggetti e delle prospettive, sia per l'utilizzo della tecnica pittorica.
In Basel, 7 (2004), Claudio Molinari ci mostra uno scorcio di struttura, un angolo visuale particolare su tre caseggiati che appaiono al di sotto di un cielo chiaro, privo di nubi, isolato nella sua luminosità. In Kaiserlautern (2005) sembra quasi che le strutture e gli esercizi di Piet Mondrian servano all'artista come griglia di lettura per i suoi oggetti, come lente negativa che permetta la visione di una purezza - innocenza? - coloristica che altrimenti sarebbe impossibile. Troviamo esempi ancora più significativi in questo senso in Struttura 3, Stadtrand 4, Diga, che si possono osservare sul catalogo Torri – Towers curato da Alberto Tamassia e introdotto da Dino Pavesi.
La Mole Antonelliana (2006) si affaccia sulla tela come se venisse osservata da una prospettiva insolita, da un luogo basso e straordinariamente vicino alle pareti esterne. I suoi colori sono vivi, irreali, quasi sgargianti come vetrate delle sinagoghe di chagalliana memoria (l'edificio era stato costruito, tra l'altro, per essere un luogo di culto ebraico). Un atteggiamento pittorico naïf riscontrabile anche in Lugano 4 (2004), mentre in Savona 5 (2005) il filtro per osservare il mondo circostante sembra arrivare direttamente dagli Ossi di Seppia e dalle spiagge sabbiose di Filippo de Pisis.
I due quadri della serie Intorno al Lago di Lugano 6 – 7 (2005) presentano paesaggi quasi incompleti (soprattutto per quanto riguarda la connotazione coloristica e di profondità realistica), come se la parte più comunemente esplicita dovesse rimanere fuori dalla tela. Un esempio di maieutica che partorisce, dell'idea, solamente il talento di fondo. Siamo di fronte al valore aggiunto che avrebbe fatto, in una tela compiuta, la differenza tra semplice paesaggismo naturalistico e opera d'arte moderna. Un'operazione di ulteriore sottrazione a scorci già essenziali nella loro luminosità, nella loro semplicità provinciale: tornano in mente i paesaggi di Giorgio Morandi e in particolare i suoi disegni per le illustrazioni della raccolta poetica Sole a Picco di Vincenzo Cardarelli – e ci fa sorridere poterli osservare, in questo caso, incompiuti.
All'interno della mostra allestita a “La Dolce Vigna” di Agliano Terme, si possono ancora ammirare la Torre Velasca - MI (2008), e due studi di nudi femminili Mareggiata e Sera (2002). Questi ultimi forniscono un valido esempio di quanto l'autore abbia lavorato in passato allo studio di forme espressive, stilizzate, che raccolgano, da una sola tonalità di colore, la forza per darsi all'osservatore come statue di compiuta bellezza. In un percorso che attraversa e abbandona definitivamente forme estetizzanti e decorative, il linguaggio del pittore approda a un segno personale, difficilmente confondibile. Questi raggiunti equilibri di tratto e colore tentano (nel duplice significato di tentativo e tentazione artistica) l'esperienza metafisica dell'essenza e della purezza.

Ivan Fassio