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domenica 21 agosto 2011
Marco Memeo. Una Simbologia della Percezione
Ci dovrà pur essere, per qualsiasi aspetto del reale, – questo si domanda, ad un certo punto, ogni artista moderno – la possibilità di una soluzione poetica? Si dovrà pur mostrare, prima o poi, una via d’uscita che possa inglobare tutti i frammenti in un insieme finito, che possa integrare situazioni apparentemente disorganiche in una tassonomia, in un catalogo che non ammetta residui, eccezioni? Il modo per uscire da questa impasse – almeno a partire dalla pop art – non consiste nell’accumulare scientificamente dati coerenti, ma nel creare delle regole arbitrarie che consentano di presentare la propria opera come una grammatica di compiuta perfezione, come un brandello di certezza isolato agli angoli di una realtà caotica.Per Marco Memeo l’arte è sicuramente strumento di conoscenza, di indagine, ma anche testimonianza soggettiva, spesso sofferta, che si presenta al pubblico nelle sue infinite contraddizioni e imperfezioni. Le regole del gioco della sua pittura hanno quindi tratto sostentamento sia dai modi della conoscenza, dell’apprendimento, sia dal difficile equilibrio tra impressioni personali, emotive e percezione comune, sociale.
Per questo motivo, le sue prime opere si proponevano organizzate come una sorta di catalogo – significativamente intitolato ABCittà – in cui i paesaggi urbani della periferia apparivano allo spettatore ordinati in modo enciclopedico, quasi come tentativo di scovare una regolarità e un senso nella rappresentazione di architetture stranianti, di scorci industriali o di vetrate e cartelloni pubblicitari. Il tentativo era quello di presentare una sintassi compiuta, con le sue regole e le sue eccezioni, che – come in un gioco – fornisse non soltanto le chiavi di lettura del mondo rappresentato, ma ne andasse a scovare gli angoli meno frequentati dall’assuefatto occhio dell’indaffarato cittadino contemporaneo. Di conseguenza, già nei primi quadri della sua produzione, la rappresentazione tendeva ad organizzarsi intorno a segni catturati – spesso casualmente – nella loro arbitrarietà. Come lettere che si fossero slacciate, assolutamente, dalla logica di un alfabeto. Come se i tasselli, gli stilemi topici del paesaggismo ottocentesco avessero iniziato a non riconoscere più l’organicità della prospettiva che li legava e giustificava. Si affacciavano, pian piano, sempre più irriconoscibili, ed emergevano sulla tela, isolati, amplificati, ingranditi fino a sfocarsi, svincolati naturalmente da ogni volontà omologante e rassicurante.
All’inizio, lo spettatore meno accorto poteva ancora pensare a tentativi di rappresentazione originale, di provocazione per la scelta dei soggetti, ma Marco Memeo, consapevolmente vicino ai grandi maestri dell’avanguardia storica piuttosto che a Gerhard Richter o ai grandi iperrealisti Americani, se ne distaccava già nelle intenzioni, mostrandoci la sua testimonianza come una traccia, come un testo monco, le cui regole fossero riuscite ad aggirare l’ostinata presenza di un soggetto creante, di un demiurgo. Il suo stile si configurava, da subito, come una visione periferica, sia dal punto di vista tematico, sia per i modi di scelta degli oggetti rappresentati, e, ancora, per quanto riguarda gli aspetti puramente formali della sua pittura. I temi erano quelli della grande città, delle periferie in cui l’artista era cresciuto, dell’architettura degli Anni Sessanta e Settanta: sottintendevano l’alienazione, il disagio della civiltà contemporanea, la speciale solitudine che s’annida nei quartieri operai. La ricerca dei soggetti avveniva casualmente attraverso l’uso della videocamera o della macchina fotografica, la scelta – per suggestione – si posava sugli angoli meno frequentati, su squarci di architetture, semafori e strisce pedonali che riuscivano a creare improbabili geometrie, e che mostravano dell’urbanizzazione il volto spietatamente inumano. La cristallizzazione della città come paesaggio a sé stante, estraneo alle regole della natura, con la sua logica utilitaristica, emergeva dalla rappresentazione opaca, da una pittura che iniziava a intorpidirsi nelle acque stagnanti dell’incomunicabilità, dell’impossibilità di una rappresentazione consolante o condivisibile.
La serialità con cui le opere si presentavano annullava l’importanza di titoli e di indicazioni geografiche per giungere a una vocabolarizzazione di non-luoghi che, secondo l’originaria definizione datane da Marc Augé, ne catalogava le infinite e reiterate caratteristiche di anonimato e di stereotipazione. A questo apporto criticamente – e ironicamente? – educativo e didattico s’accostava, in modo consequenziale, la forte tematica di denuncia che emergeva dalla rappresentazione degli spazi nella loro elementarità e dalla disparita dell’emotività e della soggettività dell’artista.
Più che ricondurre la pittura di Memeo a illustri precedenti nell’ambito dell’arte figurativa, si è tentati di accostarlo a correnti letterarie e teoriche che della percezione della città e del paesaggio hanno fatto oggetto di studio e riflessione. Partendo dal famoso verso di Hölderlin Poeticamente abita l’uomo, che, mirabilmente commentato e fatto proprio da Heidegger, ha aperto la strada a nuove considerazioni sugli studi di urbanistica e paesaggio, si può arrivare agli scritti e alle considerazioni sull’utilitarismo in architettura di Adolf Loos, agli stretti legami tra studi di forme nell’ architettura e nel design che hanno accomunato varie correnti artistiche d’avanguardia del Novecento. Ancora meglio, le teorizzazioni che stanno alla base dell’arte di Memeo ci riportano ai paesaggi narrati dalla grande letteratura del Novecento: le città inermi e reificate sotto lo sguardo di Fernando Pessoa e dei suoi eteronimi, le considerazioni astratte e poeticamente toccanti de Le Città Invisibili di Italo Calvino, l’urbanistica desolata che scopriamo nel minimalismo Americano di David Leavitt e, soprattutto, di Raymond Carver. Non a caso, una delle più importanti mostre di Marco Memeo a Roma aveva come titolo – parafrasando appunto un celebre verso dello scrittore statunitense – Di che cosa parliamo quando parliamo di Carver. Dei racconti del narratore, i quadri di Memeo sono l’impeccabile contrappunto, mostrano le scene sospese, le scenografie comodamente intercambiabili in cui i personaggi e le situazioni di Carver – ugualmente svuotate di episodi significativi a livello di rappresentazione – potrebbero essere calati. Dall’apparente semplicità del mondo carveriano e delle tele di Memeo scaturisce sempre, ancora, un pesante alone di inquietudine; un sortilegio espropria oggetti, paesaggi e personaggi delle loro singolarità ed individualità, rendendoli parte di un mondo sospeso, in cui la mano del creatore s’allontana sempre più, divenendo quasi invisibile alle nostre coscienze.
Il pittore, in questa terra desolata, nella città irreale, riesce a darci testimonianza sfocata di luoghi inospitali, osservati con l’occhio spento del reietto, dell’emarginato, del malato. La sua individualità poetica si scioglie nella prosa di un mondo plasmato dalle leggi del consumo, della comodità, della velocità. In questo senso, l’artista giunge a un sempre maggiore livello di astrazione e il sipario che prima si apriva su elementi riconoscibili, inizia, lentamente ma con un’assiduità crescente in modo esponenziale, a cedere la scena alle più improbabili forme geometriche che l’umanità genera nei più ascosi anfratti delle città spersonificate. Si tratta quindi di un cammino che approda, logicamente, all’abbandono della pittura come rappresentazione.
Nella mostra organizzata dal consigliere Marcello Coppo ed allestita nel Palazzo delle Entrate ad Asti nel settembre 2009, Marco Memeo presenta una sorta di percorso che giunge al traguardo fino a qui anticipato. Le opere che ci presenta sono tutte di ugual misura (110 x 110) – altro tratto della loro speciale serialità – e sono caratterizzate da uno stile, che, nell’ostentato realismo che talvolta persegue, mostra scorci e paesaggi presentati quasi come simboli. Nella loro densa opacità, sono già aperti al maggior numero di interpretazioni: pronti ad essere colmati dal senso che la percezione di ogni spettatore può dare loro. Anche i titoli non vogliono influenzare per nessun motivo l’incontro che il pubblico avrà con le opere e mostrano ancora caratteristiche tassonomiche e stranianti: Tre Balconi, Dettaglio Torre, Una Finestra, Due Finestre, Torre 1, Torre 2 …
Si tratta di un’estetica della percezione che cerca e trova un pubblico aperto alla messa in discussione e all’analisi dei propri punti di vista e dalla propria sensibilità. Non ci resta, quindi, che farci oltrepassare dalle sensazioni che l’artista – già lontano dalla propria creazione come lo erano gli antichi dei, demiurgo assente, ormai attonito spettatore d’altri paesaggi – ha lasciato emergere nell’opera.
Ivan Fassio
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