giovedì 29 dicembre 2011

Ecco il catalogo delle prospettive contemporanee per autori ed editori. Intervista a Dario Salani

 In un clima di cambiamenti per l'editoria d'arte italiana alcune nuove realtà muovono i primi passi. Con un approccio innovativo ed uno sguardo attento alla sostenibilità


In questo periodo, con l'ottava edizione di Artelibro a Bologna e con una serie di convegni sul centenario del libro futurista, l'attuale condizione dell'editoria d'arte è stata esaurientemente dibattuta. L'identità delle pubblicazioni, l'organizzazione della filiera produttiva e i meccanismi delle scelte editoriali sono ripensati alla luce di una nuova base di condivisione e dell'apporto che, a queste premesse, possono fornire le nuove tecnologie. Dario Salani, editore torinese, ha da poco iniziato un singolare percorso con Prinp, casa editrice specializzata in pubblicazioni d’arte crossmediali (in formato cartaceo ed elettronico) e on demand.

I.F.: È un momento in cui il dibattito sull'identità dell'editoria d'arte si intreccia a numerosi nodi culturali del presente: il valore del libro d'arte come work in progress all'interno del sistema e il suo eventuale valore pedagogico negli studi superiori ed accademici; gli sviluppi tecnologici che consentono, da una parte, una maggiore duttilità e, dall'altra, un'attenzione condivisa ai problemi della diffusione e della tiratura.

D.S.: L'editoria internazionale sta attraversando una fase di profondo cambiamento strutturale. Internet e le nuove tecnologie stanno ridefinendo i processi editoriali legati alla produzione, al marketing e alla vendita del prodotto librario. Dopo l’avvento sul mercato dell’ebook e delle varie Apps per smartphones, il Print on Demand (stampa a richiesta) si conferma come il vero punto di svolta nell’editoria d’arte. È oggi possibile stampare i libri in tirature limitate, evitando così gli sprechi derivati dalla tradizionale filiera distributiva. L'autore avrà a disposizione tutti gli strumenti per produrre, distribuire e vendere le proprie opere librarie, seguendo in prima persona tutte le fasi del processo editoriale. La figura stessa dell’editore verrà probabilmente messa in crisi.

I.F.: Le caratteristiche ecologiche e di sostenibilità dell'editoria on demand rendono il progetto della tua casa editrice particolarmente inserito nel dibattito presente. Altri progetti di questo tipo stanno nascendo in Italia? Per quanto riguarda i libri d'arte e le edizioni a tiratura limitata, qual è il panorama che si presenta, nello stesso senso, in questi anni?

D.S.: L’ attuale fotografia del business librario in internet è caratterizzata da due modelli dominanti: i megastore monopolizzanti (amazon, libreka, ibs.it, ecc.) e le piccole librerie online di nicchia. La fotocopia di ciò che esiste oggi nella realtà: le grandi librerie “di catena” e le piccole librerie indipendenti e specialistiche. Nel web, tuttavia, le due realtà potranno interagire tra loro, con la possibilità di caricare automaticamente, tramite delle API (Application Programming Interface), i nuovi titoli pubblicati, le novità librarie e i vari contenuti da distribuire. L’editoria periodica si sta velocemente mettendo al passo con i tempi, offrendo applicazioni e contenuti extra per i vari dispositivi mobili. È importante ricordare, in questo senso, che Exibart è il capostipite dell’editoria multipiattaforma. La situazione è diversa per le case editrici di libri d’arte. Il loro massimo sforzo, finora, è stato quello di introdurre la versione elettronica di alcuni titoli in catalogo e aggiornare i loro siti internet convertendoli in piattaforme di e-commerce.

I.F.: L'ultimo catalogo edito da Prinp I Decolonizzatori dell'Immaginario. Artisti della Decrescita concretizza un discorso artistico e culturale sostenuto dai sociologi Serge Latouche e Maurizio Pallante e dal critico e storico dell'arte Floriano De Santi. Si tratta del momento di presa di coscienza, per la tua casa editrice, di un ruolo da ricoprire all'interno del sistema dell'editoria? Può essere inteso come un nuovo inizio? Quali sono, in questo senso, i progetti futuri?
Marzia Migliora, Forever Overhead, Courtesy Prinp Editoria d'Arte

D.S.: La piattaforma Prinp nasce da una profonda analisi sullo stato di crisi dell’editoria tradizionale. La sostenibilità ambientale ed economica è, quindi, alla base del nostro concept progettuale. Il discorso sociologico di Latouche e Pallante e la conseguente linea artistica di De Santi sono parametri insiti nella mission della nostra casa editrice. La formula si addice perfettamente agli “artisti della decrescita”, ma anche a tutti gli artisti e operatori del settore. Abbiamo appena pubblicato un catalogo di Marzia Migliora per la galleria Lia Rumma, il libro/catalogo Transafricana a cura di Achille Bonito Oliva per la Fondazione 107 di Torino, un catalogo della mostra di Angiola Gatti a Villa Giulia di Verbania e altri cataloghi con artisti indipendenti: JINS, Marco Memeo, Maria Crocco, Alessia Zuccarello, Ada Mascolo, David Ruff, Sarah Bowyer. Stiamo lavorando a numerosi altri progetti editoriali: un libro d’artista di Maura Banfo, le biografie di Luigi Mainolfi e di Carol Rama. Questa temperie - definita da molti esperti del settore come “la più grande innovazione della carta stampata dai tempi di Gutenberg” - apre, per il progetto Prinp, una ricca stagione di piacevoli novità editoriali.


Ivan Fassio



giovedì 8 dicembre 2011

I Cavalieri dell'Apocalisse - Mostra Collettiva

Alga Zaharescu, Il Settimo Sigillo, tecnica mista, 2011


Mostra collettiva a cura di Ivan Fassio e Mariana Paparà

Galleria Aripa
Via Bertola 27/I
Torino

Vernissage Giovedì 22 Dicembre 2011 - 19:00
Aperitivo musicale con Armonie Jazz di Marco Salzano (Hammond Organ) e stralci dalla performance poetico-musicale "Mystic Gallery Show" di Ivan Fassio e Diego Razza


Artisti:

Ezio Gribaudo, Gianni Ottaviani, Ida Sacco, Ortansa Moraru, Mariana Paparà, Alga Zaharescu, Carlo Giaccone, Luciana Ronco, Lorena Fortuna, Stefania Groppo, Mario Goglia, Severino Magri, Teo Martino, Viorel Rotari, Anne-Cecile Breuer, Carla Bassignana, Carmen Sempreboni, Clara De Magistris, Giovanna Boglioni, Riccarda Fabbricatore




Dal 22 Dicembre 2011 al 14 Gennaio 2012
Dal martedi al sabato: 11:30 – 19:00Contatti: http://www.aripa.eu/
011/0864858
ivan.fassio@gmail.com
galleria@aripa.eu


Ezio Gribaudo, Cavalli, tecnica mista, 2011


La Galleria Aripa di Mariana Paparà rappresenta, da anni, artisti italiani e internazionali che, avvalendosi di diversi linguaggi e strumenti, propongono lavori sperimentali sia a livello formale che contenutistico.
A compimento di un annuale percorso tematico di mostre, la galleria presenta una collettiva dedicata ai Cavalieri dell'Apocalisse. La lettura escatologica e mistica è pretesto per introdurre, all'interno del percorso espositivo, una serie eterogenea di approcci e stili. L'assunto comune è la messa in discussione delle coordinate della rappresentazione tradizionale.
Ogni artista, nella ricerca di un linguaggio che sapesse oltrepassare la barriera della comune percezione, si è confrontato con soluzioni estremamente personali. Nella varietà dei risultati ottenuti sta la chiave di lettura dell'intera mostra: indagine sulla realtà attraverso intervento sulla materia.
Accanto ai cavalli di Ezio Gribaudo e alle archeopatie di Gianni Ottaviani, affermati artisti della guest area, possiamo osservare gli scudi di Mariana Paparà, opere in cui pittura e installazione si incontrano. La scultura di Teo Martino, allo stesso modo, si confronta con un uso particolare di materia e colori. Gli artisti torinesi Carlo Giaccone, Carla Bassignana, Carmen Sempreboni, Giovanna Boglioni, Anne Cecile Breuer, Clara De Magistris e Riccarda Fabbricatore si rapportano con l'arte orientale, dipingenso su carta di bambù con nero di china e mallo di noce. Le xilografie di Ortansa Moraru, artista rumena attiva a Toronto, propongono rappresentazioni su carta giapponese, in bilico tra naturalismo e astazione. Nelle tradizioni a cui si attengono, si contrappongono formalmente ai collage e alle sperimentazioni di Viorel Rotari.
Gli studi formali e cromatici di Severino Magri, le strutture metafisiche di Ida Sacco, le composizioni materiche di Lorena Fortuna, gli acrilici informali di Stefania Groppo, la tenica mista su legno di Mario Goglia, l'atrattismo espressionista di Alga Zaharescu e le creazioni in digitale di Luciana Ronco completano una collettiva improntata all'esplorazione dei linguaggi e all'indagine su strumenti e materiali.
La mostra si pone come punto di partenza per una ricerca stilistica e, al tempo stesso, come work in progress: contenitore di idee e soluzioni in continuo sviluppo.

Ivan Fassio

martedì 29 novembre 2011

Un dialogo allo specchio per riflettere su un percorso attraverso arte e società. Massimo Melotti a colloquio con Michelangelo Pistoletto

Una breve pubblicazione dai densi contenuti riesce a coniugare intervista, dibattito e lettura critica dell'opera di uno dei protagonisti dell'Arte Povera

Adamo ed Eva, 1962 - 1987, foto: E. Amici

Un itinerario nella partecipazione sociale e nella condivisione dell'esperienza estetica viene tracciato a partire da una riflessione filosofica sul valore simbolico e percettivo dello specchio. Classicità e contemporaneità si avvicinano in contrasto dialettico, processi creativi fondono vita e simbolismo, l'ombra del Doppelgänger si staglia sul ruolo dell'arte e si propaga all'interno della società contemporanea.
Il volume Opere di Pistoletto. Massimo Melotti a colloquio con Michelangelo Pistoletto, edito da Allemandi & C. in collaborazione con Cittadellarte Edizioni, accompagna il lettore attraverso un percorso a tappe all'interno della produzione dell'artista piemontese. La trattazione delinea i propositi e scandisce i risultati di un'intera carriera: dalle considerazioni sull'autoritratto dei primi Anni Sessanta alla presa di coscienza di una dimensione temporale inscritta necessariamente nell'opera, fino al definitivo abbandono del tradizionale approccio prospettico rinascimentale.
Massimo Melotti, sociologo e critico d'arte, collaboratore di Piero Gilardi e Michelangelo Pistoletto, arricchisce la propria trattazione con citazioni dalle opere dei semiologi Christov Poniam e Jurij Lotman. Proprio da quest'ultimo e dal suo saggio La Semiotica dello Specchio e della Specularità potremmo dedurre alcune chiavi di lettura per il lavoro che stiamo analizzando. Per Lotman, l'opera d'arte – simulazione del mondo – è un testo di struttura complessa, in grado di trasmettere una quantità di informazioni impossibili da convogliare in un linguaggio tradizionale. La società riflette se stessa in questi testi: si osserva allo specchio, nel meccanismo della creazione di senso. L'umanità, nel tentativo di scandagliare e interpretare il significato artistico, dà vita alla cultura. Si tratta di un sistema teorico che poggia saldamente su una base di condivisione e confronto.
Allo stesso modo, l'opera di Michelangelo Pistoletto germoglia da una relazione dialettica con l'identità autoriale per ampliare, nel corso del tempo, la sua portata e per ramificarsi nei più disparati campi del sapere e della società. Alcune delle opere prese in considerazione nel testo presentano, in nuce, questo proposito. Lo sfondo dei primi autoritratti inizia a slacciarsi dal tradizionale valore pittorico per farsi scena monocroma argentata o dorata. Il riflesso delle superfici specchianti prende così vita, presentando l'immagine umana a grandezza naturale e mostrandosi, libero, al dinamismo temporale e spaziale.
Lo spettatore, di fronte all'opera, diventa parte di un nuovo insieme, sempre cangiante. Documentare il lavoro d'artista si pone come operazione strettamente legata all'hic et nunc, al momento della percezione. In questo senso, nel volume, le immagini di Pistoletto e Melotti sono riflesse nelle opere, quasi a significare l'entrata del gesto critico e divulgativo all'interno del mondo dell'arte. Il colloquio che ha preceduto la stesura del libro e la passeggiata all'interno della Cittadellarte da parte dei due autori sono documentati fotograficamente accanto alle opere trattate, come a voler marcare, ancora più a fondo, il sodale tra estetica e condivisione, la sottile linea di confine tra arte e vita.
Ogni superficie specchiante, divisa e posta in rapporto con se stessa, moltiplica la propria immagine. In questo modo, da ogni divisione si può creare una moltitudine: per sempre, riflettendo all'infinito. Nascono, da queste premesse, le Gabbie Specchio (1973 - 1992), creatrici di molteplicità.
Metasimbolo, in quanto capace di contenere e riflettere ogni simbolismo, lo specchio giustifica l'esigenza da parte dell'artista di stabilire pregnanti corrispondenze tra antichità e presente, tra classicismo e avanguardia. La Venere degli Stracci (1967), immagine topica dell'Arte Povera, nasce come opera di tensione dialettica tra immagine mitologica, rappresentata in maniera neoclassica, e l'installazione degli stracci: gli strumenti del mestiere che l'artista utilizza per lucidare le superfici a specchio.
Il testo sottende la stessa tensione: una coraggiosa intenzione di confondersi all'interno della materia trattata, per porsi come strumento relazionale e di confronto. Si struttura come opera aperta, work in progress. Ad una sorta di intervista sul percorso espositivo della Cittadellarte di Biella, si aggiunge un colloquio tra i due autori avvenuto nel luglio 2005 sull'Isola di San Servolo, a Venezia, in occasione della presentazione del progetto Terzo Paradiso. Massimo Melotti, in una riflessione conclusiva, indaga sulle ragioni di un ritorno ad un'arte simbolica e analizza, puntualmente, la nuova dimensione in cui l'artista pone, di volta in volta, l'altro da sé. Getta luce, infine, sull'innovatività del modello di istituzione Cittadellarte e dei suoi Uffizi. Questo progetto pone le basi partecipative di un nuovo Umanesimo attraverso la divulgazione del sapere di diverse discipline: arte, educazione, architettura, economia e spiritualità. Lo specchio mette in relazione l'uomo con l'universo, e allo stesso modo l'arte può assumere non solo le altre discipline ma anche la religione, proprio come Pistoletto scriveva già nel 1978.
Il presente. Autoritratto in camicia, 1961, ph: E. Amici


Opere di Pistoletto. Massimo Melotti a colloquio con Michelangelo Pistoletto
Allemandi & C. in collaborazione con Cittadellarte Edizioni, 2011
Pagg. 85
Euro 14,00
ALLEMANDI - 9788842219637

Ivan Fassio 
(fonte: Exibart)

mercoledì 23 novembre 2011

The Others (4 – 6 novembre 2011) - Lo Sguardo degli Altri

Un resoconto per immagini e suggestioni

Leo Ferdinando Demetz, Colpevole I, tiglio, 
h.65 cm., 2010, courtesy Bianca Maria Rizzi & Matthias Ritter


The Others non è stata soltanto una fiera d'arte giovane e inconsueta, ma anche una nuova manifestazione di ampio respiro culturale. L'orario di apertura, dalle 18 all'una, ha favorito un'affluenza omogenea nelle ore serali, creando un'atmosfera intellettualmente stimolante e, al tempo stesso, disinvolta ed immediata. La concomitanza di eventi musicali, letterari e teatrali – curati dal Circolo dei Lettori di Torino – ha arricchito l'evento fieristico di una connotazione più genuinamente culturale.
Le gallerie, tutte di recente apertura, hanno occupato gli spazi delle celle delle Ex Carceri Le Nuove di Torino. Il significato di questa originale impostazione fieristica può essere rintracciato nelle intenzioni del comitato scientifico e selezionatore, composto da Andrea Brusati (direttore della galleria comunale d'arte contemporanea di Monfalcone), Claudio Composti (direttore artistico della mc2 gallery di Milano), Alessandro Facente (indipendent curator) e Michele Lupi (direttore di Rolling Stone). La volontà è stata, sicuramente, quella di lavorare sulle differenze e sulle peculiarità di scelte curatoriali d'avanguardia, senza perdere di vista una determinata cernita qualitativa e uno sguardo d'insieme sull'orizzonte del contemporaneo: pittura, scultura, installazioni, performance e fotografia. Il modo alternativo in cui particolari progetti si aprono alla contemporaneità e al futuro è stato, già a prima vista, il modus operandi seguito dal comitato per la selezione delle gallerie e delle associazioni no profit.
Alterità come distanza da certezze imposte dalla tradizione e come sguardo periferico che muove verso un nuovo centro: in queste accezioni, il carcere si pone come luogo privilegiato e fortemente simbolico per l'inizio di una nuova manifestazione. La prigione entra - insieme ai concetti di colpa, alienazione ed espiazione - come argomento di riflessione, anche nei lavori presentati da molte gallerie.
Il progetto espositivo della Galleria Bianca Maria Rizzi & Matthias Ritter di Milano ruota intorno ai lavori dell'artista e scultore bolzanese Leo Ferdinando Demetz. Due mezzibusti in legno,”I Colpevoli”, si sporgono, completi di abiti da carcerati anni '30, dalle mura interne della cella e fungono da chiave di lettura di tutto l'allestimento. La decisone di porre la propria rappresentazione artistica all'interno delle spinose tematiche legate alla pena detentiva introduce un percorso di spessore che si snoda con coerenza. I contenuti e lo stile del disegno dell'artista tedesca Kinki Texas danno vita, tra ammiccamenti alla pop art e ad un espressionismo immediato, ai possibili pensieri di serial killer e di alienati della società: altro riferimento a segregazione e disagio sociale. La desolazione presentata nei paesaggi dello sloveno Jernej Forbici indica l'intera umanità come colpevole della distruzione ambientale. Le opere sono ispirate alla regione geografica di Halda, in Slovenia, dove una discarica a cielo aperto e un'industria di alluminio hanno gravemente compromesso il futuro di natura e paesaggio. Nelle opere dell'artista, lande abbandonate si colorano di bianco e rosso: sono gli ossidi di ferro rilasciati dalle scorie. L'opera di Matthias Langer ha ancora a che fare con la colpa. La sua riflessione si sofferma però sul tempo dell'espiazione: l'artista ci presenta le immagini fotografiche della vita di una candela, dello svolgersi del suo ardere. Nello stesso senso, le opere di Luca Gastaldo riflettono sullo scorrere temporale, nella solitudine, della meditazione e dell'osservazione, mentre l'opera dell'artista tedesca Christiane Draffehn, elaborazione digitale su silverprint, significativamente intitolata Caught, pone l'accento sui significati di cattura e privazione.
Rizomi Art Brut, progetto alternativo torinese, si muove nell'inesplorato campo dell'art brut. Questo concetto è stato ideato dal pittore francese Jean Dubuffet per indicare le produzioni artistiche realizzate da non professionisti che creano un'arte fortemente spontanea ed espressiva, operando, tuttavia, al di fuori delle norme estetiche convenzionali (spesso autodidatti, psicotici, prigionieri, persone completamente digiune di cultura). La galleria presenta interessanti opere di Francois Burland, Gianluca Pirrotta e Dan Miller, in bilico tra ingenuità ed espressionismo, riflessione sul segno e arte informale.
La Galleria Paludetto_ Torino presenta una scelta di artisti già presenti in mostre personali e collettive tra le sedi di Rivara, Torino e Roma. Il lirismo della fotografia dell'artista iraniano Arash Radpour, la leggerezza e la ritmicità addensante dell'opera Un Brusio d'Ali di Elvio Chiricozzi, le fascinose sorgenti del fotografo torinese Bepi Chiozzi delineano una mostra di forte impatto simbolico ed evocativo.
Suggestioni cromatiche e simbolismo, giochi d'ombre e luci sono elementi che ritroviamo anche nella produzione fotografica Inheritance di Valentina Merzi e Diambra Mariani per l'associazione KnStudio di Verona.
Fart ArtGallery è una galleria “low cost” torinese: l'idea è quella di raggiungere un nuovo pubblico di appassionati e di collezionisti d'arte, distaccandosi dalle speculazioni delle classiche gallerie e del collezionismo tradizionale. Il nome stesso gioca sul dualismo del significato italiano di “Fare arte” e dell'inglese di Fart, che sta per “pernacchia”: un modo irriverente e, inieme, giocoso, per dare vita a nuovi itinerari nel mondo dell'arte. Lo stesso progetto presentato alla fiera, Forever Jung, nell'ironico gioco di parole che propone, affronta il tema del dualismo attraverso il riferimento alla difficoltà di distinguere il bene dal male. Sono stati esposti dei lavori di Simone Pizzinga, Mattia Macchieraldo, Valentina Argirò ispirati ai tatuaggi criminali o al tema delle maschere.
Per il progetto 4Focus On The Others della casa editrice Prinp Editoria d'Arte, quattro giovani fotografi, in collaborazione con un graphic designer, hanno realizzato un libro/evento dal vivo durante le quattro serate della fiera. Le immagini della pubblicazione documentano l'incontro tra la fotografia, l'architettura e la storia della particolare location delle Ex Carceri Le Nuove, come prima testimonianza dell'inizio di una nuova fiera d'arte. Il fotografo Davide De Martis ha colto alcune espressioni degli spettatori di The Others. Sara Vindrola ha scavato nell'essenza dei luoghi dell'esposizione, tralasciando ogni traccia del passaggio umano. Andrea D'Angelo ha realizzato dei ritratti segnaletici, ispirandosi alle fotografie dei criminali di inizio Novecento e fotografando i suoi soggetti sia frontalmente che di profilo. Vanessa Vettorello ha riletto gli spazi delle Carceri alla luce di un approccio più teatrale, immortalando i personaggi come se fossero imprigionati in un inedito palcoscenico: drammaturgia che mescola ricordo e presente, colpa ed espiazione.

Elvio Chiricozzi, Un Brusio d'Ali, collage su legno, 250 x 500 cm., 2010, courtesy Paludetto Torino


Ivan Fassio
(fonte: Exibart)




martedì 8 novembre 2011

Uno sguardo sull'orizzonte del ritorno. Intervista a Franz Paludetto


Intuizione ed esperienza sono le caratteristiche dell'operare spiazzante di Franz Paludetto. E il suo ritorno a Torino si pone, simbolicamente, come trait d'union tra storia e possibili scenari futuri

La collettiva da poco inaugurata al Castello di Rivara costringe il pubblico a riflessioni che superano un classico approccio tematico. Lo spettatore è spinto a porsi, criticamente, di fronte al processo creativo e alle sue motivazioni. La mostra di Francesco Sena a Torino, nel nuovo spazio di Via Stampatori, si presenta, sotto certi aspetti, come un ulteriore momento di analisi su tecnica e stile. Lo spazio di Roma, con una personale di Daniela Perego, completa questo intero percorso che muove tra immagini archetipiche e ritualità. Ecco le premesse necessarie per avvicinarci al presente del gallerista Franz Paludetto... che ci racconta, in questa intervista, il suo passato e i suoi progetti per il futuro.

I.F.: Il ritorno a Torino sembra legato ad una certa volontà di ripercorrere una strada che, proprio da Torino, si è spinta, nel corso del tempo, fino a Rivara, Calice Ligure, Norimberga e Roma. Una sorta di purificazione, di rito di passaggio? O, forse, un gesto mimetico nei confronti dell'opera di autori come Hermann Nitsch, Alighiero Boetti, Joseph Beuys: artisti che hanno accompagnato il tuo cammino e che, sebbene in modi completamente diversi, proponevano, dopo necessari processi di azzeramento stilistico e spersonificazione, ritorni rituali e percorsi a ritroso?
F.P.: Menzioni, nella tua domanda, artisti storici che hanno contato moltissimo nella mia carriera. Riaprire uno spazio a Torino dopo dieci anni di assenza è per me un ritorno a casa, quasi una ‘chiusura del cerchio’: da venticinque anni dirigo con grandi sacrifici e soddisfazioni il Centro d’Arte Contemporanea del Castello di Rivara e, nel 2010, ho aperto un piccolo spazio a Roma, ma la mia storia di gallerista è iniziata qui a Torino negli anni Sessanta, quando il punto di riferimento – per me e per molti altri - era Gian Enzo Sperone. Stimavo e stimo tuttora il suo lavoro, ma da subito cercai di assumere una mia identità assolutamente indipendente, scegliendo artisti che istintivamente avvertivo affini al mio modo di vedere e sentire l’arte.
Le mie iniziative non sono mai nate con o da un azzeramento. Ognuna di esse è stata fortemente personificata. Potremmo, a maggior ragione, definire quello che mi riporta sulla scena torinese un percorso a ritroso che vuole tracciare una prospettiva per il futuro: ho, infatti affidato, la direzione della galleria di Via Stampatori a mio figlio Davide. Manterrò, da parte mia, soltanto la curatela artistica: una sorta di ‘consulenza esterna’.

I.F.: L'ultima mostra Su Nero Nero, al Castello di Rivara, spinge lo spettatore a considerazioni sul grado zero dell'arte contemporanea. Si avverte, tra i tanti artisti coinvolti nell'evento, la ricerca di una matrice archetipica dalla quale ripartire per un nuovo approccio dialettico alle questioni stilistiche. Quale orizzonte si prospetterebbe, per galleristi e istituzioni, dopo una tale presa di coscienza?
F.P.: Posso assicurarti che la questione che mi poni si presenta ogni qualvolta la ricerca artistica persegua un avanzamento, un autentico progresso: penso, tuttavia, che il concetto di grado zero sia improbabile. Per quanto riguarda la condizione attuale, il grande problema è la mancanza di ideologia politica e sociale. Le istituzioni pubbliche, che hanno il compito di promuovere e conservare, troppo spesso non riescono a tenere il passo; dobbiamo tuttavia riconoscere che le ricerche contemporanee di ogni epoca hanno bisogno di periodi di decantazione.

I.F.: Francesco Sena a Roma nel mese di giugno e, ora, a Torino per l'inaugurazione del nuovo spazio in Via Stampatori. Il suo è stato un percorso che, spontaneamente e attraverso l'uso di diversi supporti e materiali, si è mosso tra la superficie della tela e la scultura. Anche in questo caso, la volontà è quella di presentare un artista che, a prescindere dagli strumenti utilizzati, ci faccia riflettere sulla nascita di ogni processo creativo?
F.P.: Francesco Sena utilizza la cera in maniera versatile, fascinosa, ma la questione non è, appunto, la scelta del materiale. Attraverso il supporto e il medium spesso avviene l’identificazione dell’artista, ma io vorrei porre l’accento su ciò che essi sottendono; qualcosa che ritrovo negli artisti della generazione di Sena, come Sergio Ragalzi, Paolo Grassino, Salvatore Astore.

I.F.: Quali saranno, in breve, i prossimi appuntamenti a Torino, Rivara e Roma? Presenteranno una continuità di tematiche e intenti con le ultime mostre?
F.P.: Per gli spazi di Torino e Roma, che saranno in dialogo costante, abbiamo in programma una serie di mostre di giovani artisti italiani e stranieri. Ad esempio, vorremmo mettere a fuoco le singole identità degli artisti più interessanti che hanno partecipato alla collettiva Su Nero Nero al Castello di Rivara. Per la stagione espositiva 2012 del Castello, visto il successo di quest’ultima mostra, ho in mente un nuovo grande progetto tematico…

Ivan Fassio

martedì 1 novembre 2011

Cronache dell'Esistenza dal Mondo delle Macchine. La Luce Verde dell'Apocalisse di Jean Paul Charles

J. P. Charles, 2011


Un cronista medievale, dovendo raccontare il proprio tempo, si trovava costretto dalla tradizione a cominciare le proprie narrazioni dalla fondazione del mondo o, almeno, dalla nascita di Cristo. Conseguenza di questa consuetudine era una giustificazione del plagio. Ogni scrittore di cronache si poneva sulla scia di un altro storico: riportava stralci di opere, ricopiava interi passaggi, lavorava e interveniva su tagli di altri scritti. Il testo finale, nel suo svolgersi, risultava come un insieme eterogeneo sul quale si innestavano gli interventi dell'ultimo cronista. Un tessuto variegato e complesso: summa che si nutriva di notazioni mitologiche, sapere scientifico, teologia, aneddoti biografici. Il futuro, spesso, trovava spazio nelle credenze catastrofiche del millenarismo: la tesi di una fine del mondo terreno nell'anno Mille, desunta dalla lettura dell'Apocalisse, giustificava, con una conseguente idea di rinascita spirituale, particolari letture politiche e religiose della società.
L'artista Jean Paul Charles, come una sorta di cronista medievale, si avvale di una tradizione, di molti supporti e della volontà di rappresentare il proprio presente, scavando nella concatenazione di eventi che l'hanno generato. Non dipinge: il suo è un linguaggio di immagini, utile a testimoniare esperienze individuali e collettive. L'intervento gestuale ed estemporaneo su cartelloni pubblicitari, fotografie, pannelli e radiografie è il modo privilegiato di proporre una singolare narrazione. Quest'ultima, slacciata dalla classica trama e proposta come una sorta di flusso di fotogrammi, insiste, in una illimitata sequenza mistica, sui concetti di realismo ed espressionismo. Alla concretezza del materiale di supporto, si sovrappongono la spiritualità e il dolore delle immagini create dall'intervento dell'artista. Non vengono proposte particolari letture ideali dei tempi, tutto è giocato all'interno di una grammatica dell'immagine. Una logica della sensibilità si insinua nel flusso delle effigi e dei colori, fino ad accompagnarci nella scoperta di nuove dimensioni. Le prospettive dei paesaggi, le sembianze dei ritratti, il collage di immagini sovrapposte, fotografate, innestate costringono i nostri sensi ad interrogarsi sui concetti di riconoscibilità umana, geografica e storica. Il pulviscolo che scaturisce dalla disgregazione delle figure conserva un minimo di identificabilità, oppure scivola, s'incanala in direzioni sorprendenti e crea nuove illusioni. In questo senso, il futuro è apocalittico perché, da una parte, disumani e catastrofici sono i tempi che stiamo vivendo e, dall'altra, perché sorprendente può essere la rinascita vitale e spirituale che ci attende. L'ottimismo dell'opera emerge dal carattere catartico della testimonianza, dalla lucidità dell'espressione, dalla nascita di nuove, inaspettate stratificazioni simboliche.
Il percorso seguito da questo diario individuale e collettivo si avvale di svariati strumenti (fotografia, pittura, collage, radiografia, fotografia digitale) e supporti (tela, cartelloni pubblicitari, superfici riciclate, carta, vetro, vernici, smalti, acrilici), senza mai individuare un campo d'azione privilegiato o un'unica matrice di riconoscibilità. A partire dalle serie di opere precedenti al 2000, significativamente intitolate Fiore Geneticamente Modificato (FGM), passando attraverso i paesaggi dei Luoghi della Sopravvivenza e dei Luoghi della Contaminazione (2000 – 2005), l'approdo all'utilizzo di radiografie e collages si pone come gesto spontaneo nei lavori di Alienazione Informazione (2007).
Il recupero di manifesti pubblicitari e il conseguente intervento dell'artista con vernici e catrame nella serie di opere Generazione da Salvare (2008), la creazione di volti o figure umane attraverso l'utilizzo di impronte di scarpe in Smettila di Camminarmi Addosso (2010), sono gli antefatti per un ritorno ai colori della pittura nell'assemblaggio di tracce degli ultimi lavori, Apocalypse Green (2011). I trittici di recente produzione indagano la scomposizione dell'immagine, attraverso fotografia digitale, disegno, pittura. Particelle esplose rivelano il nucleo di una natura – umana, vegetale, inorganica – carica di significazioni. Riversano la propria potenzialità simbolica sui sensi dello spettatore.
La luce verde dell'Apocalisse è la misteriosa e tremenda insistenza della vita nel progresso dei tempi moderni. L'opera, attraverso l'intervento dell'artista, viene partorita con dolore dalla macchina che la teneva imprigionata. Maieutica delle sensazioni, l'operazione di Jean Paul Charles riporta alla luce l'enigma dell'esistenza da un mondo meccanicizzato e alienante. Una nuova dimensione sembra scaturire dal lavoro di scavo sul segno e sul colore, un'ombra di rigenerazione si staglia dietro ai contorni delle nuove immagini.


Ivan Fassio

J. P. Charles, Apocalypse Green, 2011

mercoledì 12 ottobre 2011

Apocalypse Green. Mostra Personale di Jean Paul Charles

Apocalypse Green. La luce verde dell'Apocalisse


J.P.Charles, 2011
- L'Apocalisse come rivelazione

L'Apocalisse è rivelazione delle nostre capacità percettive: emersione di volti, paesaggi, corpi e oggetti riconoscibili perché portatori di strutture essenziali. L'essenza è invisibile: affiora, tuttavia, da un rapporto mistico con l'opera. Quest'ultima si pone come un simulacro evanescente. È fantasma del pensiero razionale e, allo stesso tempo, radice dell'esistenza corporea. Una perdita delle proprie certezze identitarie si accompagna, tanto nell'artista quanto nello spettatore, ad una maggiore capacità di entrare in contatto con l'oggettività di elementi formali necessari. Si potrà leggerli come ingranaggi di una finzione inevitabile e, al contempo, catartica.



J.P.Charles, 2011
- L'Apocalisse come speranza

Secondo l'esegeta francese Paul Beauchamp, "la letteratura apocalittica nasce per aiutare a sopportare l'insopportabile".
La letteratura apocalittica presenta un linguaggio simbolico discontinuo, le immagini si susseguono senza una particolare concatenazione. Allo stesso modo, nelle opere di Jean Paul Charles, il susseguirsi di elementi drammatici e simbolici non segue una trama tradizionale. Si riferisce, tuttavia, ad una Storia individuale e sociale: si presenta come frammentaria proprio nel tentativo irrequieto di testimoniare il dolore


J.P.Charles, 2011


- L'Apocalisse come presenza


Nella letteratura apocalittica, i tempi si confondono. Si ricorre spesso all'avvenire per riferirsi, metaforicamente, alla situazione presente. Passato e futuro sono imprigionati in un eterno presente. È il tempo della distanza imprescindibile dalla creazione, dell'abbandono della propria identità, dell'assenza. L'unica presenza certa è ll'allusione simbolica: l'essere è riformulato, cancellato, radiografato, sovrapposto. L'artista interviene, istintivamente o meccanicamente, sempre con l'intento di aggiungere un tassello alla propria intuizione della verità. Ogni immagine è ciò che è rimasto dopo una sconfitta: la battaglia veniva combattuta contro la realtà del presente.
                                                                                                                                                
Ivan Fassio


Apocalypse Green. Personale di Jean Paul Charles

A cura di Ivan Fassio
Paratissima
Via Nizza, 31
Torino

Orari:
2 novembre: 19,00 - 23,00
3-4-5 novembre: 16,00 - 24,00
6 novembre: 11,00 - 20,00



martedì 4 ottobre 2011

Ciò che dice il tempo – Logogrifo 1970 di Ezio Gribaudo



Ezio Gribaudo, Logogrifo 1970, rilievo e oro su carta buvard, 33 x 44 


Non ci dice il tempo che ogni circostanza è soltanto una particolare disposizione di elementi. È la nostra logica a radunare questi tasselli per generare i fatti, per allineare le tappe della Storia. Credere negli eventi significa, quindi, avere fede nel linguaggio che li esprime. Occorre che il tempo storico scorra come un fiume su un letto di convinzioni e tra argini di strutture inconsciamente condivise.
Allo stesso modo, alla speranza per ogni avvenire e al compimento di ogni progresso è essenziale che la manifestazione di un principio possa incarnarsi in determinati avvenimenti. Nel presente, l'ideale sta all'azione così come, nella narrazione di una storia, la fiducia sta al linguaggio.
Volontà di cambiamento, risorgimento dello spirito e umanesimo poggiano sulla fede nella parola e nell'azione. Per credere, tuttavia, è indispensabile passare attraverso il nulla, cedere alla tentazione della vanità che emerge da ogni comunicazione, da ogni racconto, da ogni immagine. Al fine di recuperare autenticità, è necessario abbandonare rischiosamente la logica e ripercorrere emotivamente le certezze che puntellano la nostra biografia. Emergeranno, dalla distanza del tempo, le immagini care, gli alfabeti dell'infanzia, lo stupore e il dolore in forme appena riconoscibili, nelle sfumature o nei contrasti dell'emozione ritrovata. Se mischiare queste carte, formulando un catalogo interiore quasi incomunicabile, è un modo per ritrovare e giustificare una memoria individuale, sarà forse possibile tentare la stessa operazione per il recupero di una memoria collettiva.
Logogrifo 1970 di Ezio Gribaudo è un'archeologia emotiva della storia Italiana. La campagna e le innovazioni tecnologiche, la Chiesa e i salotti borghesi, cittadine di provincia e parchi incontaminati, la scrittura sacra e l'urlo delle avanguardie sono sorpresi nello scorrere confuso di fotogrammi cinematografici. Lo sforzo di memoria indugia commosso sui momenti dell'immagine e della parola come se queste ultime stessero scivolando inevitabilmente nel vortice dell'oblio. Ciò che dice il tempo, in questo modo, è la dorata vitalità del ricordo, il vociare indistinto e toccante di un'epoca.



                                                                                                              Ivan Fassio


martedì 27 settembre 2011

Una sequenza di 5 film per 5 fotografi: un'indagine sulla grande fotografia Italiana


I film documentari di Luca Molducci, Giampiero D'Angeli e Alice Maxia puntano l'obiettivo sui grandi maestri della fotografia e mettono a fuoco intenzioni, sperimentazioni, strutture e linguaggi

Mimmo Jodice, clip dal video, credits Luca Molducci - Giart
I documentari su Gabriele Basilico e Gianni Berengo Gardin sono accomunati da alcune sequenze in cui i due fotografi, insieme, visitano un cantiere ai margini di una periferia. Ne esplorano risorse e angoli visuali, geometrie e suggestioni. Riflessioni sul paesaggio urbano, intrecciate a considerazioni su colore e punti di vista, si ritrovano nell'intervista a Franco Fontana. Tradizione e costume, sperimentazione e legami con arte e letteratura sono i grandi nodi tematici intorno ai quali ruotano le considerazioni sul valore della fotografia nei film dedicati a Mimmo Jodice e Ferdinando Scianna.
Nei primi cinque documentari della serie Fotografia Italiana, prodotta da Giart – Visioni d'Arte con il patrocinio della Cineteca di Bologna, abbiamo, oltre alla possibilità di approfondire l'opera dei più importanti maestri della fotografia, l'occasione di intraprendere un viaggio all'interno delle questioni seminali dell'arte del Novecento: sperimentazione e ricerca formale, vocazioni documentaristiche, questioni sociali e notazioni antropologiche, interazioni tra arte figurativa e letteratura.
Il produttore Luca Molducci, il regista Giampiero D'Angeli e l'autrice Alice Maxia hanno saputo ripercorrere cronologicamente il lavoro degli artisti e, allo stesso tempo, gettare luce su intenzioni pretestuali e su operazioni di postproduzione e mostrare ogni fotografo al lavoro e alle prese con il proprio archivio e con la propria memoria.
Di notevole interesse, per ogni intervento, sono le particolari definizioni che ogni artista sa dare della propria arte e, in generale, del mestiere del fotografo.
Ferdinando Scianna, facendo riferimento a tradizione e fonti letterarie, definisce la fotografia come un'arte che “ammazza i vivi e risuscita i morti” e il fotografo come un artista che vive completamente immerso nel presente e perfettamente conscio, tuttavia, di costruire memoria. La luce, destino e maledizione di quest'arte, sta alla base di ogni operazione. La fotografia, quindi, in quanto scrittura di luce, nasce dall'irrevocabilità di un istante e trova perfetta collocazione, nel libro e nella raccolta, come racconto di dignità letteraria.
Per Mimmo Jodice, il primo docente italiano di fotografia in Accademie, l'arte fotografica nasce da una volontà di azzeramento della quotidianità. In questo senso, si tratta di un modo di esprimere pensieri e di eludere la trama tradizionale. La vocazione per il documento è abbandonata a favore della sperimentazione. Ricerche con acidi sulle carte sensibili, realizzate direttamente in camera oscura, strappi e passaggi dal colore al bianco e nero, esperimenti sulla percezione della prospettiva e dei punti di fuga caratterizzano parte della sua opera. Il Progetto Mediterraneo, le riflessioni sulla permanenza del passato nel presente, il lavoro sull'archeologia sono intesi come interventi sulle modalità di creazione artistica piuttosto che come operazioni di catalogazione fine a se stessa.
Gabriele Basilico, partendo dalle aree industriali di Milano negli anni Settanta, giunge a creare un vero e proprio inventario delle aree urbane: Berlino, Beirut, Mosca, Shangai. La sua opera insiste su analogie e corrispondenze. Caratteristiche strutturali ricorrenti, se riconosciute e analizzate, consentono di evitare quello smarrimento che la civiltà contemporanea spesso ci impone.
Gianni Berengo Gardin è fotografo di costume. Il documentario ci mostra i suoi lavori sui manicomi, sugli zingari, sulla religiosità del Sud, sulle case degli Italiani. Amico di artisti e scrittori come Emilio Vedova e Cesare Zavattini, Berengo Gardin, facendo costante riferimento al proprio archivio e ai propri ricordi, illustra la propria sensibilità descrivendoci il suo particolare sguardo indagatore e la sua volontà di mostrare le tante sfaccettature della nostra società.
Franco Fontana, clip dal video, credits Luca Molducci - Giart
Franco Fontana fotografa ciò che non vede: il mondo intero è, così, il giardino segreto in cui poter creare. In questo senso, l'opera d'arte è sempre pretesto per esprimere una verità. La fotografia non viene intesa come lavoro di illustrazione. Invenzione e creazione, invece, devono prendere vita da un atto istintivo per giungere all'espressione di una realtà. Il suo percorso di artista è analizzato a partire dalle prime opere. Spazi materici, muri, croste sono stati la radice dei suoi futuri paesaggi: le sequenze sulle stagioni e sui tagli di orizzonte del mare, i lavori sulle metropoli in America nel 1979 e nel 1990, le serie delle strade dalla Via Appia a Santiago di Compostela fino alla Route 66.


Ivan Fassio


Fotografia Italiana. 5 film 5 grandi fotografi: Gabriele Basilico, Gianni Berengo Gardin, Franco Fontana, Mimmo Jodice, Ferdinando Scianna
DVD - Durata: 50/52 minuti
Prezzo Singolo: euro 14,90
Prezzo Cofanetto 5 dvd: euro 64,90

giovedì 22 settembre 2011

Su Nero Nero - A cura di Franz Paludetto - Castello di Rivara


Il quadrato nero del Suprematismo è paragonabile a segni primitivi in cui nulla viene illustrato, ma tutto può essere letto come riproduzione di sensibilità e ritmo. Giungendo ad una concezione di arte pura, non applicata, Kazimir Malevic teorizzava la conseguente cessazione della corrispondenza nei confronti di scopi di utilità o rappresentazione. L'artista, a partire da quel momento, non sarebbe più stato legato al piano della pittura, ma sarebbe stato in grado di trasportare le sue composizioni dalla tela nello spazio.

Carlo D'Oria, Fossili, 2011, Castello di Rivara, Photo by Marco Memeo


Muovendo da queste premesse, il percorso della collettiva Su Nero Nero a cura di Franz Paludetto ci accompagna senza forzature attraverso i molteplici tentativi di riflessione sul grado zero delle espressioni artistiche, siano esse legate a pittura, scultura e fotografia piuttosto che a performance e video. Il nero è componente contenutistica e, allo stesso tempo, recinto simbolico in cui porre le coordinate di un discorso su potenzialità e limiti formali e stilistici della contemporaneità.
Sergio Ragalzi forza la figura umana presentando simulacri di corpi che sembrano accumulare strati: immagini incerte, instabili perché in bilico tra lo spazio attivo della tela e la passività di un'espressione archetipica.
Le opere di Paolo Grassino sono di forte impatto drammatico. Il suo è un approccio dialettico alle categorie di realtà e artificio. Mutazione e instabilità dei concetti di riconoscimento e identità sono proposte in nere sculture di gomma sintetica o cemento.
La fotografia di Claudia Rogge sembra prendere vita da un particolare horror vacui, che, oltre a matrici psicanalitiche, presenta, in chiave ironica e teatrale, i disagi della civiltà contemporanea. Il colore nero vi partecipa come componente perturbante, è neutrale sfondo per ammassi di corpi, pose e situazioni.
L'opera di Marco Tirelli instaura un dialogo tra lo studio di strutture e la valenza percettiva di una certa sfumatura del nero. Mette in gioco la nostra capacità di visione e si inscrive, all'interno della mostra, come considerazione sul significato di segno e rappresentatività.
Le sculture Fossili di Carlo D'Oria portano in scena un'archeologia dell'umanità. L'uomo è riconoscibile come calco nella pietra, come reperto casuale emerso da chissà quale futuribile indagine. Resta rappresentabile – come se si trovasse in un quadro – nella riflessione antropologica dello scultore sul significato e sul valore della finzione artistica.
A conclusione di un ipotetico percorso attraverso le opere dei novanta artisti presenti, l'installazione concettuale Tele Lavate di Michelangelo Castagnotto rivela la chiave di lettura dell'intera mostra. L'arte supera sempre se stessa: soltanto l'uso artistico fa sì che lo spettatore si interroghi di fronte a qualcosa di dato incondizionatamente, a un corpus affrancato, per il momento, dalla progettualità della storia. Allo stesso modo, il nero è stato lavato dalla tela. Quest'ultima, stesa ad asciugare, ha conquistato lo spazio che Malevic aveva liberato un secolo fa.




Michelangelo Castagnotto, Le Tele Lavate, installazione, Photo by Marco Memeo


Ivan Fassio