Alla
radice del sipario – come in un cielo capovolto – stanno una
deriva di vele, un volteggiare di gabbie, lo sventolio delle tende e
il battere d'ali della cattività: i confini di separazione tra
abbandono e costrizione, tra limitazione e libertà. Proprio queste
linee furono marcate e frequentate dai primi che si aprirono al
mondo, che coinvolsero l'altro in simulazione: nel gioco, nel gesto
poetico e nell'emissione del canto, nel mistero del teatro e nella
fuga della danza. Per comunitaria condivisione, per fuoco sacro, per
regola rituale, i contorni sfumavano – la follia poteva essere
intesa, la malattia risanata, la diversità assimilata.
Il
nostro è tempo di sete per cerimoniali e formule magiche... Abitiamo
uno spazio ristrutturato in costruzione simbolica e possediamo una
finzione riorganizzata. Siamo appalti, apparati, cantieri. In tutti i
sensi, serviamo, come un ingranaggio! Ritorniamo noi stessi a sprazzi
e, dal vuoto pneumatico che conteniamo, in pressione risuscitiamo il
sudario di un'anima. Da qui, pratichiamo personalmente, talvolta
inconsciamente, procedure iniziatiche, culti animistici e funzioni
liturgiche.
Passeggiando
per le strade della città, ci fermiamo immobili, come per
imposizione, e ci facciamo attraversare dai ritmi del progresso: in
verticale oppressione, zona mentale da non oltrepassare. Ecco che,
salito il sipario, sogniamo il cerchio perfetto di una pace
insperata, l'estasi di sprofondare, l'oblio in cui evaporare. Più
ancora, i colori ci penetrano: stanchi dell'omologazione, costruiamo
uno scenario brutale di cromatica essenzialità, in cui intrufolarci
per recuperare gli scarti, nutrirci del male, esorcizzarci...
Ivan
Fassio
magico sipario
RispondiEliminaennio