di
Ivan Fassio
Una
variazione subentrò nello spirito del sogno – scrisse il poeta –
e definì
una sfumatura per il dolore, un'ombra stabile per la lotta
interiore e l'inquieto abbassarsi dello sguardo di fronte all'incisa
lapide degli indicibili pensieri... Ignorandoli, il soggetto vide le
scene sostituite: il buio, il pavimento, la luce accecante, la
chiusura delle palpebre. Osservò il niente e gli diede un nome:
altro. Vergogna!
Da
allora, l'individualità si confuse e ripiegò, si chiuse e
fortificò. Interruppe l'azione di ogni terza persona. Permise ad
ogni sensazione di appartenerle interamente. Fuori di sé, riuscì a
possedere tutto. Disse mio, mi descrisse, pronunciò io. E parlò:
“Vedo nel sonno l'incedere dell'animo: sulle punte, di corsa,
rotolante, ingombrante, sbilanciato, fremente, compunto, imponente,
accasciato, ritto, volante, addossato a me! Tutto ciò che è detto,
toccato, provato, sentito, udito: è visto. Nel linguaggio fissante
del passivo: è veduto dalla vista nell'oscuro della carne,
riassorbito da occhi chiusi, arso parte a parte e incenerito,
fossilizzato dentro ai sensi: concavo e convesso. Per questo,
riverbera nei secoli: araldo dell'eterno!”
I.
F.
ph. by Jean-Paul Charles |
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