Claudio Molinari, Mittelpunkt, calcografia, 2010
(a Claudio Molinari)
I)
Acrobazie verticali, trapezio e tuffo avvitato in un bicchiere d’assenzio. Rivoltato, il candelabro, in breve mancanza d’equilibrio, in cupe fondamenta, ha spento i propri fuochi, ha lastricato le sue braccia per comporsi, austero, ai piedi di montagne. Nato per il vespro, per assenza di dipinti, nel tacere del lamento s’è fatto fiero monumento del mattino, stende l’ombra del calice, coglie della luce il limpido e l’amaro, il dolce ottenebrato. Per salire nella cupola ogni genere d’appoggio ci è negato, ci si sente scivolare, fluttuanti nel fulcro dell’inutile leva, accecati dalle vele ben disposte in simmetria. Non manifesto per il mondo ma più discreto progetto aristocratico, competitivo tiro alla fune contro il canone, per questo era nato. Presto la storia ha fatto del volume un ideogramma, ha scalciato il piedistallo in spregio del passato. Ogni forma ha tinteggiato le sue mura d’un decoro più speciale, lo spettatore ha donato, allucinato nella gamma dei colori, un fugace senso: allo spietato pullulare della città in serie, del fradicio spazio tecnologico. Tutti a versare il liquore, indistinti in fondo alle balere, nei sacchi a pelo della chiesa, perduti brulicanti nelle periferiche osterie, giorno e notte a spendere il residuo della continua produzione.
Tutto è falso, esiguo refrigerio ci viene dal vivere di notte, dove un goccio costa sempre meno. Soltanto in rare mattinate, aprendo gli occhi sul paesaggio, ci chiediamo quale sia la realtà che tutto invade e cela. Incuriositi, rivediamo le colline in lontananza e i monti, ancora più lontani, sono il messaggio dello scorrere del fiume. Ai piedi della sinagoga, nessuna coppa raduna le visioni per il giorno che si crea. Tacito accordo del sarcasmo e dell’ebbrezza sancisce l’inutilità della vita che ci vive. Rimane la nostra risata e il cuor leggero e l’avventura dei notturni.
II)
Ci rubavamo l'un l'altro gli stracci Nella serata inconsolabile Nello scompartimento strapieno.
Fare chiasso era il nostro dovere – Anime stanche ammalate – Infastidire il nostro prossimo Diventava mestiere.
Eravamo bestie in torride galere Fumava il nostro treno sgangherato Che ci trainava nel vuoto Senza un futuro un passato. Al nostro collo mai un laccio allentato.
III)
Era un torrente scavato nel legno Scavalcava l’albero E raggiungeva le foci. Sensazione fremente d’acquoso mistero. Nel ricordo di un sogno Anch’io mi perforo E spalanco ferite Estraggo i miei pezzi Uno ad uno, organi e ghiandole, strizzo la bile E disegno un verde cespuglio. Mi squarto e mi appendo Mi carico in spalla il costato Sfilaccio la carne che pende da madide ossa Il sangue – nelle fogne – lo faccio colare E col cuore modello un rosso pagliaccio.
Ivan Fassio
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