martedì 24 aprile 2012

The Making of SHAMAN/SHOWMAN. Intervista ad Anne Marie Sauzeau

Alighiero Boetti, Pesci, serigrafia, tiratura: 75 copie, 1992, Studio Fornaresio

 Riscopriamo un libro ripubblicato nel 2006 da Luca Sossella Editore: omaggio emotivamente sentito ad Alighiero Boetti e, al contempo, sguardo critico rivelatore ed innovativo. E proponiamo un'intervista all'autrice, Anne Marie Sauzeau




Il libro di Anne Marie Sauzeau può essere considerato, stilisticamente, come un modo di far riaffiorare alcuni meccanismi che avevano informato la produzione artistica di Alighiero Boetti. Allo stesso modo, l'attenzione critica spesso si assenta per lasciare emergere, attraverso un mimetismo elegante e discreto, la realtà prodotta dall'artista nella sua originarietà.
La scrittura è intesa come sforzo analitico, razionale e quasi pedagogico, che oscilla tra immedesimazione fictional nelle categorie dei procedimenti artistici di Boetti e testimonianza privilegiata e coinvolgente di un'esistenza.
L'autrice, Anne Marie Sauzeau, prima moglie dell'artista, cita in apertura del testo le parole di Maurice Merleau-Ponty, nelle intenzioni di mostrare “lo strato di significato grezzo” dei gesti artistici nel loro nascere. Proprio da questo autore inizia la nostra conversazione.
I.F.: Maurice Merleau-Ponty scrive, in L'Occhio e lo Spirito: "La visione non è una certa modalità del pensiero, o presenza a sé: è il mezzo che mi è dato per essere assente da me stesso, per assistere dall'interno alla fissione dell'Essere". Il lavoro di Boetti sulle coincidenze, sui “nessi acausali” ha a che fare con questa volontà di studio anatomico della percezione.
A.S.: Spesso interpretavo le opere di Alighiero alla luce della fenomenologia di Merleau-Ponty e lui rideva. Captava le idee ma non voleva essere un intellettuale. L'insistenza di Boetti sui concetti basilari presupponeva che le esperienze sensoriali fossero, prima di quelle mentali, alla base del suo lavoro artistico. Parlava di sei sensi: il sesto era il pensiero, inteso come una vera e propria modalità di percezione. Come nella filosofia di Merleau-Ponty, si trattava di vivere un'esperienza sensoriale e, allo stesso tempo, rielaborarla.
I.F.: La sua scrittura, nello sforzo mimetico che talvolta persegue, può essere considerata come un gioco al raddoppio, come una scommessa e, quindi, potrebbe essere uno sforzo critico capace di ripetersi in altre soluzioni, in altre pubblicazioni sull'artista?
A.S.: Non credo. Non mi sono giocata delle carte, come invece ha scelto di fare Maurizio Cattelan nel testo Infiniti Noi contenuto nello stesso volume. Ho tentato, attraverso commenti discreti, di chiarire certi meccanismi, di proporre un'archeologia dei pensieri nascenti. Lo stesso Boetti mi aveva chiesto di svolgere questo lavoro analitico e, al contempo, mimetico. Per svelare, attraverso la complicità, alcune strutture, e, tuttavia - come sosteneva Alighiero - “tenere nascoste le cose importanti”, conservare un alone enigmatico intorno a certe opere.
Altra cosa è la scrittura creativa di Cattelan. Boetti, senza rivelare il proprio gioco, invitava a continuarlo. Quello di Cattelan e di altri eredi di Alighiero è un lavoro di esegesi, un prolungamento infinito del gioco, un modo di interpretare per non far morire.
I.F.: Alighiero Boetti era affascinato dalle modalità di percezione della superficie, dell'inquadratura, dei segni numerici e alfabetici. Un produttore di realtà (come lo definisce Hans Ulrich Obrist), che riuscì ad anticipare alcune idee della globalizzazione e della grande distribuzione, sarebbe stato stimolato dalle attuali modalità di condivisione e comunicazione? Per quanto riguarda la sofferta dicotomia Shaman/Showman: sarebbe rimasta una calzante definizione per l'artista oppure uno dei due lati della personalità sarebbe inevitabilmente prevalso? (l'etica assoluta dell'artista sciamano o lo sguardo critico e beffardo del giullare?)
A.S.: Penso che la sua posizione aristocratica lo avrebbe portato a disprezzare i moderni mezzi di condivisione. Sarebbe stato interessato dalle moderne correnti ecologiste, dalle riflessioni sulla decrescita. Intendeva spesso il progresso come un ritorno all'arcaico. Forse anche il suo “vivere tra opposti”, il suo equilibrismo sarebbe sfociato in una scelta, in un risultato.. Ripeteva che voleva continuare a creare cose belle, che non voleva fare come Rimbaud. Era, allo stesso tempo,  affascinato dal fatto che molti artisti erano stati influenzati dall'artigianato e che, invece, le sue mappe ora influenzavano l'artigianato afghano. Talvolta, sosteneva di voler abbandonare l'arte, di voler continuare a diffondere cose belle, diventando produttore e venditore di tappeti che l'artigianato popolare orientale avrebbe potuto realizzare in migliaia di copie partendo dai suoi disegni. La dicotomia Shaman/Showman, la contrapposizione vissuta tra Occidente e Oriente, la sua personalità avventuriera contrapposta ai soggiorni nella tenuta dell'Umbria: tutte queste “sfide” sarebbero sfociate, forse, in una soluzione esistenziale o artistica. D'altronde, ripeteva sempre: “Finirò calzolaio in Guatemala!”



Ivan Fassio, courtesy Exibart on Paper


Anne-Marie Sauzeau Boetti
Shaman/Showman
Luca Sossella Editore, 2006
Collana Plurale Immaginario
Con interventi di Jonathan Monk e Maurizio Cattelan
pagg. 230, DVD di Emidio Greco



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