martedì 27 settembre 2011

Una sequenza di 5 film per 5 fotografi: un'indagine sulla grande fotografia Italiana


I film documentari di Luca Molducci, Giampiero D'Angeli e Alice Maxia puntano l'obiettivo sui grandi maestri della fotografia e mettono a fuoco intenzioni, sperimentazioni, strutture e linguaggi

Mimmo Jodice, clip dal video, credits Luca Molducci - Giart
I documentari su Gabriele Basilico e Gianni Berengo Gardin sono accomunati da alcune sequenze in cui i due fotografi, insieme, visitano un cantiere ai margini di una periferia. Ne esplorano risorse e angoli visuali, geometrie e suggestioni. Riflessioni sul paesaggio urbano, intrecciate a considerazioni su colore e punti di vista, si ritrovano nell'intervista a Franco Fontana. Tradizione e costume, sperimentazione e legami con arte e letteratura sono i grandi nodi tematici intorno ai quali ruotano le considerazioni sul valore della fotografia nei film dedicati a Mimmo Jodice e Ferdinando Scianna.
Nei primi cinque documentari della serie Fotografia Italiana, prodotta da Giart – Visioni d'Arte con il patrocinio della Cineteca di Bologna, abbiamo, oltre alla possibilità di approfondire l'opera dei più importanti maestri della fotografia, l'occasione di intraprendere un viaggio all'interno delle questioni seminali dell'arte del Novecento: sperimentazione e ricerca formale, vocazioni documentaristiche, questioni sociali e notazioni antropologiche, interazioni tra arte figurativa e letteratura.
Il produttore Luca Molducci, il regista Giampiero D'Angeli e l'autrice Alice Maxia hanno saputo ripercorrere cronologicamente il lavoro degli artisti e, allo stesso tempo, gettare luce su intenzioni pretestuali e su operazioni di postproduzione e mostrare ogni fotografo al lavoro e alle prese con il proprio archivio e con la propria memoria.
Di notevole interesse, per ogni intervento, sono le particolari definizioni che ogni artista sa dare della propria arte e, in generale, del mestiere del fotografo.
Ferdinando Scianna, facendo riferimento a tradizione e fonti letterarie, definisce la fotografia come un'arte che “ammazza i vivi e risuscita i morti” e il fotografo come un artista che vive completamente immerso nel presente e perfettamente conscio, tuttavia, di costruire memoria. La luce, destino e maledizione di quest'arte, sta alla base di ogni operazione. La fotografia, quindi, in quanto scrittura di luce, nasce dall'irrevocabilità di un istante e trova perfetta collocazione, nel libro e nella raccolta, come racconto di dignità letteraria.
Per Mimmo Jodice, il primo docente italiano di fotografia in Accademie, l'arte fotografica nasce da una volontà di azzeramento della quotidianità. In questo senso, si tratta di un modo di esprimere pensieri e di eludere la trama tradizionale. La vocazione per il documento è abbandonata a favore della sperimentazione. Ricerche con acidi sulle carte sensibili, realizzate direttamente in camera oscura, strappi e passaggi dal colore al bianco e nero, esperimenti sulla percezione della prospettiva e dei punti di fuga caratterizzano parte della sua opera. Il Progetto Mediterraneo, le riflessioni sulla permanenza del passato nel presente, il lavoro sull'archeologia sono intesi come interventi sulle modalità di creazione artistica piuttosto che come operazioni di catalogazione fine a se stessa.
Gabriele Basilico, partendo dalle aree industriali di Milano negli anni Settanta, giunge a creare un vero e proprio inventario delle aree urbane: Berlino, Beirut, Mosca, Shangai. La sua opera insiste su analogie e corrispondenze. Caratteristiche strutturali ricorrenti, se riconosciute e analizzate, consentono di evitare quello smarrimento che la civiltà contemporanea spesso ci impone.
Gianni Berengo Gardin è fotografo di costume. Il documentario ci mostra i suoi lavori sui manicomi, sugli zingari, sulla religiosità del Sud, sulle case degli Italiani. Amico di artisti e scrittori come Emilio Vedova e Cesare Zavattini, Berengo Gardin, facendo costante riferimento al proprio archivio e ai propri ricordi, illustra la propria sensibilità descrivendoci il suo particolare sguardo indagatore e la sua volontà di mostrare le tante sfaccettature della nostra società.
Franco Fontana, clip dal video, credits Luca Molducci - Giart
Franco Fontana fotografa ciò che non vede: il mondo intero è, così, il giardino segreto in cui poter creare. In questo senso, l'opera d'arte è sempre pretesto per esprimere una verità. La fotografia non viene intesa come lavoro di illustrazione. Invenzione e creazione, invece, devono prendere vita da un atto istintivo per giungere all'espressione di una realtà. Il suo percorso di artista è analizzato a partire dalle prime opere. Spazi materici, muri, croste sono stati la radice dei suoi futuri paesaggi: le sequenze sulle stagioni e sui tagli di orizzonte del mare, i lavori sulle metropoli in America nel 1979 e nel 1990, le serie delle strade dalla Via Appia a Santiago di Compostela fino alla Route 66.


Ivan Fassio


Fotografia Italiana. 5 film 5 grandi fotografi: Gabriele Basilico, Gianni Berengo Gardin, Franco Fontana, Mimmo Jodice, Ferdinando Scianna
DVD - Durata: 50/52 minuti
Prezzo Singolo: euro 14,90
Prezzo Cofanetto 5 dvd: euro 64,90

giovedì 22 settembre 2011

Su Nero Nero - A cura di Franz Paludetto - Castello di Rivara


Il quadrato nero del Suprematismo è paragonabile a segni primitivi in cui nulla viene illustrato, ma tutto può essere letto come riproduzione di sensibilità e ritmo. Giungendo ad una concezione di arte pura, non applicata, Kazimir Malevic teorizzava la conseguente cessazione della corrispondenza nei confronti di scopi di utilità o rappresentazione. L'artista, a partire da quel momento, non sarebbe più stato legato al piano della pittura, ma sarebbe stato in grado di trasportare le sue composizioni dalla tela nello spazio.

Carlo D'Oria, Fossili, 2011, Castello di Rivara, Photo by Marco Memeo


Muovendo da queste premesse, il percorso della collettiva Su Nero Nero a cura di Franz Paludetto ci accompagna senza forzature attraverso i molteplici tentativi di riflessione sul grado zero delle espressioni artistiche, siano esse legate a pittura, scultura e fotografia piuttosto che a performance e video. Il nero è componente contenutistica e, allo stesso tempo, recinto simbolico in cui porre le coordinate di un discorso su potenzialità e limiti formali e stilistici della contemporaneità.
Sergio Ragalzi forza la figura umana presentando simulacri di corpi che sembrano accumulare strati: immagini incerte, instabili perché in bilico tra lo spazio attivo della tela e la passività di un'espressione archetipica.
Le opere di Paolo Grassino sono di forte impatto drammatico. Il suo è un approccio dialettico alle categorie di realtà e artificio. Mutazione e instabilità dei concetti di riconoscimento e identità sono proposte in nere sculture di gomma sintetica o cemento.
La fotografia di Claudia Rogge sembra prendere vita da un particolare horror vacui, che, oltre a matrici psicanalitiche, presenta, in chiave ironica e teatrale, i disagi della civiltà contemporanea. Il colore nero vi partecipa come componente perturbante, è neutrale sfondo per ammassi di corpi, pose e situazioni.
L'opera di Marco Tirelli instaura un dialogo tra lo studio di strutture e la valenza percettiva di una certa sfumatura del nero. Mette in gioco la nostra capacità di visione e si inscrive, all'interno della mostra, come considerazione sul significato di segno e rappresentatività.
Le sculture Fossili di Carlo D'Oria portano in scena un'archeologia dell'umanità. L'uomo è riconoscibile come calco nella pietra, come reperto casuale emerso da chissà quale futuribile indagine. Resta rappresentabile – come se si trovasse in un quadro – nella riflessione antropologica dello scultore sul significato e sul valore della finzione artistica.
A conclusione di un ipotetico percorso attraverso le opere dei novanta artisti presenti, l'installazione concettuale Tele Lavate di Michelangelo Castagnotto rivela la chiave di lettura dell'intera mostra. L'arte supera sempre se stessa: soltanto l'uso artistico fa sì che lo spettatore si interroghi di fronte a qualcosa di dato incondizionatamente, a un corpus affrancato, per il momento, dalla progettualità della storia. Allo stesso modo, il nero è stato lavato dalla tela. Quest'ultima, stesa ad asciugare, ha conquistato lo spazio che Malevic aveva liberato un secolo fa.




Michelangelo Castagnotto, Le Tele Lavate, installazione, Photo by Marco Memeo


Ivan Fassio









domenica 18 settembre 2011

Intervento dell’artista e significazione dell’opera in Unità d’Italia 1861 – 2011 di Ezio Gribaudo

Ezio Gribaudo, Unità d’Italia 1861 – 2011





































Per l'artista lo spazio della pagina è, spesso, una cella in cui dibattersi: ragione e, insieme, condanna della creazione. Il compito dell'arte diventa, così, una continua cospirazione nel tentativo di fondare un'utopica repubblica: in questo luogo ideale, immagini suoni parole saranno simboli da decifrare con sempre maggiore elevazione di spirito e profondità d'animo.
Il potere della rappresentazione – tirannide della logica del senso – obbliga l'artista ad affidare al caso gli sforzi di liberarsi dalle regole della comune percezione. È questa un'ostinata resistenza alla produzione di univoco significato, combattuta agli sviliti margini delle pagine della storia.
Ogni volta che il gesto è affidato alla fatalità, nella consapevolezza dell'alone di significati
che produce, la creazione artistica esplode la sua carica rivoluzionaria, e la bandiera di una momentanea libertà sventola e diffonde i suoi colori.
Quando l'opera è creata, inizia ad emanare i propri enigmi: il territorio è conquistato, il
linguaggio comincia ad educare, la grammatica si adegua all'uso e un nuovo stendardo
risplende.
Soltanto il tempo e la condivisione possono far scordare l'intento della creazione: la continua risoluzione del dilemma. L'originario slancio liberatorio è nuovamente fissato in
un'immagine stabile, riconoscibile, ormai preda della ruggine di facili comunicazioni: la
bandiera è ammainata, si deve tornare a combattere! Occorre un intervento del creatore per cambiare direzione alle parole, dare una nuova piega allo stendardo, liberare un altro senso.
Il Logogrifo della Tirannide di Ezio Gribaudo era un'opera del 1972. Ispirata alla Repubblica di Platone, liberava le lettere dei passi sulla tirannide e le lasciava vagare nel silenzio della pagina bianca, percorrere pensierose lo spazio della loro cella, cospirare contro la tirannia di ogni senso attribuito arbitrariamente. Dal turbinio violento dei segni separati, dalla rivoluzione costante di una grammatica in fermento e mai placata, il creatore, mosso da speranza e carità, sulla fede di un tempo ha steso il tricolore.


Ivan Fassio


mercoledì 14 settembre 2011

Acrobatica (in tre movimenti)

Claudio Molinari, Mittelpunkt, calcografia, 2010



(a Claudio Molinari)



I)

Acrobazie verticali, trapezio e tuffo avvitato in un bicchiere d’assenzio. Rivoltato, il candelabro, in breve mancanza d’equilibrio, in cupe fondamenta, ha spento i propri fuochi, ha lastricato le sue braccia per comporsi, austero, ai piedi di montagne. Nato per il vespro, per assenza di dipinti, nel tacere del lamento s’è fatto fiero monumento del mattino, stende l’ombra del calice, coglie della luce il limpido e l’amaro, il dolce ottenebrato. Per salire nella cupola ogni genere d’appoggio ci è negato, ci si sente scivolare, fluttuanti nel fulcro dell’inutile leva, accecati dalle vele ben disposte in simmetria.
Non manifesto per il mondo ma più discreto progetto aristocratico, competitivo tiro alla fune contro il canone, per questo era nato. Presto la storia ha fatto del volume un ideogramma, ha scalciato il piedistallo in spregio del passato. Ogni forma ha tinteggiato le sue mura d’un decoro più speciale, lo spettatore ha donato, allucinato nella gamma dei colori, un fugace senso: allo spietato pullulare della città in serie, del fradicio spazio tecnologico.
Tutti a versare il liquore, indistinti in fondo alle balere, nei sacchi a pelo della chiesa, perduti brulicanti nelle periferiche osterie, giorno e notte a spendere il residuo della continua produzione.
Tutto è falso, esiguo refrigerio ci viene dal vi
vere di notte, dove un goccio costa sempre meno. Soltanto in rare mattinate, aprendo gli occhi sul paesaggio, ci chiediamo quale sia la realtà che tutto invade e cela. Incuriositi, rivediamo le colline in lontananza e i monti, ancora più lontani, sono il messaggio dello scorrere del fiume. Ai piedi della sinagoga, nessuna coppa raduna le visioni per il giorno che si crea. Tacito accordo del sarcasmo e dell’ebbrezza sancisce l’inutilità della vita che ci vive. Rimane la nostra risata e il cuor leggero e l’avventura dei notturni.


II)

Ci rubavamo l'un l'altro gli stracci
Nella serata inconsolabile
Nello scompartimento strapieno.

Fare chiasso era il nostro dovere
Anime stanche ammalate –
Infastidire il nostro prossimo
Diventava mestiere.

Eravamo bestie in torride galere
Fumava il nostro treno sgangherato
Che ci trainava nel vuoto
Senza un futuro un passato.
Al nostro collo mai un laccio allentato.


III)



Era un torrente scavato nel legno
Scavalcava l’albero
E raggiungeva le foci.
Sensazione fremente d’acquoso mistero.
Nel ricordo di un sogno
Anch’io mi perforo
E spalanco ferite
Estraggo i miei pezzi
Uno ad uno, organi e ghiandole, strizzo la bile
E disegno un verde cespuglio.
Mi squarto e mi appendo
Mi carico in spalla il costato
Sfilaccio la carne che pende da madide ossa
Il sangue – nelle fogne – lo faccio colare
E col cuore modello un rosso pagliaccio.






Ivan Fassio