sabato 30 giugno 2012

Occidente di Corso Salani. A Slaff, il Ricordo di un Cineasta Indipendente


Corso Salani, Occidente, 2000

Ad Asti, per una riflessione su cinema e migrazione, si ripercorrono le vicende degli uomini senza patria di Corso Salani


Corso Salani è stato autore e attore che ha saputo sempre mettere in scena il disagio generazionale e individuale. Raccontando le vicende dell’uomo senza nazionalità, è riuscito ad esprimere il dolore e la solitudine che ne caratterizzano, universalmente, i comportamenti sociali. Creatore di uno stile dell’irresolutezza e dell’ambiguità, è stato capace di servirsene anche nelle opere apparentemente leggibili in chiave autobiografica.
La sua carriera iniziava nel 1987, quando riusciva a trovare lavoro come aiuto regista nel film di Carlo Mazzacurati Notte Italiana. La prima opera, il documentario Voci d’Europa (1990), realizzato con una troupe ridotta al minimo e girato in 16mm, sarà rappresentativa del modo di fare cinema che informerà anche i film successivi.
Seguivano Eugen si Ramona (1990), scritto con la sceneggiatrice di fiducia, Monica Rametta, e Gli Ultimi Giorni (1992) con Lorenza Indovina. Come attore, si metteva in luce negli anni Novanta con Il Muro di Gomma (1991) di Marco Risi, che lo vede recitare accanto ad Angela Finocchiaro, Johnny Dorelli e Roberto Herlitzka. Nello stesso periodo, Si esibiva anche in Nel Continente Nero (1993) sempre di Marco Risi e ne La Fine è Nota (1993) di Cristina Comencini.
Negli anni successivi, si impegnava nella regia di Occidente (2000),Corrispondenze Private (2003) e Il Peggio di Noi (2006). A soli 48 anni, Corso Salani scompariva prematuramente nel giugno del 2010, creando un vuoto incolmabile nel cinema indipendente del nostro paese.
Occidente, in programma sabato 30 giugno ad Asti nei locali dello Spazio Vinci, è una pellicola antinarrativa a basso costo, molto vicina al documentario, ricca di tempi morti, aperta all’improvvisazione. Pur non volendo mai utilizzare per se stesso la definizione di cineasta militante, Salani reputava la propria libertà di decisione come un’istanza strettamente legata ad una maggiore attenzione al film. Considerava il cinema indipendente come una sorta di missione in cui sperimentare i diversi linguaggi: fiction documentaristica, riflessione interdisciplinare su registri e soluzioni.
In Occidente, Malvina, ragazza di Bucarest, vive ad Aviano, il paese friulano in cui si trova l’importante base militare statunitense. Lavora come cameriera in un ristorante per soldati americani e durante le ore libere segue un corso per diventare infermiera. La sua vita sembra quella di una qualunque ragazza immigrata. In realtà, ha alle spalle un’esperienza problematica: nel 1989 ha partecipato alla Rivoluzione Rumena che ha abbattuto il regime di Ceausescu.
Alberto, un giovane professore del locale istituto alberghiero, vive lontano da casa. È uno “straniero”, come del resto un po’ tutti ad Aviano, a partire dai militari americani. Una sera, va a cena con dei colleghi nel ristorante dove lavora Malvina e rimane colpito dalla ragazza. Questo incontro è destinato a cambiare in modo profondo la sua vita. Passo dopo passo, Alberto si fa coinvolgere dall’esistenza mesta che la ragazza rumena conduce. Attratto dall’inquietudine della giovane, non riesce, tuttavia, ad avvicinarla, a parlarle, ad aiutarla. Si limita ad osservarla, a seguirla da lontano, a spiare la sua vita che, inaspettatamente, si rivela ancora più disperata di quanto egli non avesse potuto immaginare.
Salani adotta, per questo film, mezzi di estrema sobrietà: un fraseggio essenziale della macchina da presa, una recitazione totalmente priva di enfasi. Occidente è un film che ci parla dell’estraneità a se stessi, della dialettica tra speranza e delusione, della solitaria lotta contro la memoria del dolore.
Ivan Fassio
Corso Salani, Occidente
Sabato 30 giugno, ore 22,30 / 23,30
Sapazio Vinci, Asti
http://www.slaff.it/

Come Ieri: una Riflessione Storico-sociale sulla Migrazione Avvicina il Pubblico a Nuove Soluzioni Cinematografiche


Rossella Piccinno

Nella seconda giornata dello Slaff, le proiezioni di Caramel di Nadine Labaki e di Come Ieri, un'interessante analisi socio-culturale dell'artista e regista Rossella Piccinno

Dopo la serata iniziale del 29 giugno, in concomitanza con l'inaugurazione della mostra di fotografia Tessuto a Colori, il Social Lab Film Festival di Asti propone un programma che riesce a spaziare tra i diversi generi cinematografici. La scanzonata vivacità delle protagoniste di Caramel si contrapporrà al sognante impatto evocativo dell'opera di Rossella Piccinno e alla struttura fascinosamente documentaristica dell'atteso film di Corso Salani.
Caramel di Nadine Labaki è stato scelto dagli studenti del laboratorio di Lingua Italiana e di Integrazione. Il film è ambientato in un centro di bellezza. Qui, le vite, le storie, gli amori di sei donne si incrociano. Il racconto scorre, leggero e ironico, tra messe in piega, manicure e cerette al caramello. Layale è perdutamente innamorata di un uomo sposato. Nisrine, prossima al matrimonio, continua ad essere terrorizzata dalla prima notte di nozze, quando il futuro marito potrà scoprire che non è il primo uomo della sua vita. Rima resta intrappolata nei propri dubbi, sentendosi incapace d’accettare la sua attrazione per l’universo femminile. Jamale è ossessionata dal passare del tempo e dell'inevitabile avanzare dell’età. Rose ha sacrificato l’intera vita per poter tenere a bada la sorella Lili, costretta a vivere in un mondo tutto suo, fatto di lettere d’amore e amanti immaginari.
Rossella Piccinno è regista e video-artist. La sua proposta vuole esplorare le identità culturali, i problemi legati alla discriminazione o i conflitti relativi ai giochi di potere, nella famiglia come nelle comunità. Il suo lavoro si concentra spesso sulla memoria, individuale e collettiva, e sulla relazione problematica tra il presente e il passato.
Tra i diversi codici utilizzati, Rossella Piccinno recupera spesso immagini d’archivio. È ricorrente una trasversalità di registri e di linguaggi che porta le sue opere a transitare tra il documentario, la fiction e l’installazione multimediale. Ha iniziato come documentarista e resta molto legata ad un approccio di tipo antropologico, in generale utilizza il video per stabilire un contatto più profondo con se stessa e con l’altro da sé. 

Nel film Come Ieri, l'analisi socio-culturale si focalizza chi è costretto, proprio come già avvenuto in passato,
a lasciare la propria casa per andare a cercare lavoro all’estero. Molto spesso, in Italia, le donne immigrate di oggi sono badanti degli emigranti di ieri. Il passato e il presente della migrazione s’incontrano nelle vite e nei ricordi di Hanna, badante polacca immigrata in Italia, e Antonio, ex immigrato in Svizzera negli anni della gioventù e attualmente vecchio e malato di Alzheimer. Il film è una riflessione intimistica, uno sguardo privato sul particolare che si concede ad un respiro più ampio, che cerca di aprire degli spiragli su quello che non si può dire tutto in un racconto, su ciò che in cinque minuti si può solo evocare. Come Ieri contiene un omaggio personale, ma è anche dedicato, con amore e con sofferenza, a chi da sempre è costretto ad emigrare.

Ivan Fassio

Caramel (Caramel, Libano, Francia, 2007) di Nadine Labaki
Sabato 30 Giugno 2012, ore 18:00
Spazio Vinci – Asti
Come Ieri di Rossella Piccinno
Sabato 30 Giugno 2012, ore 22:30
Spazio Vinci – Asti

Ad Asti inizia SLAFF – Con una mostra di fotografia e due cortometraggi


Slaff, Presentazione con Simona Povigna

Nella cornice dello Spazio Vinci, l'impressione è quella di un festival che ha saputo convincere un pubblico interessato ed eterogeneo



Il Social Lab Film Festival, alla sua prima edizione nella città di Asti, riesce a convincere un pubblico sicuramente eterogeneo. Nella cornice dello Spazio Vinci, l'impressione è quella di un festival, che, ideato intorno alle riflessioni sui valori della diversità, abbia saputo nutrirsene all'interno di un costruttivo rapporto con il territorio circostante.
Nato dallo spontaneo sviluppo di considerazioni elaborate a margine di un laboratorio di Italiano e di Cittadinanza Attiva per migranti, il progetto iniziale ha saputo convogliare, in una formula giovane e fruibile, una serie di spunti interessanti: dall'arte della fotografia al documentario, dal cortometraggio alla commedia, dalle prove di grandi autori al cinema indipendente degli ultimi dieci anni.
A completare l'orizzonte dei significati, una serie di tavole rotonde e dibattiti individueranno i nodi problematici delle reazioni tra diritto alla migrazione e all'accoglienza, formazione e educazione, tra esperienze artistiche e accettazione della differenza.
Sabato 29 Giugno, dopo la presentazione e linaugurazione della mostra di fotografia Tessuto a Colori, hanno avuto inizio le preoiezioni dei cortometraggi. Articolo 23 di Vittorio De Seta mette in scena una particolare visione della migrazione come condizione esitenziale. In un paese dell'Aspromonte, un giovane contadino insegna il proprio mestiere a un bracciante senegalese. Dovrà presto immigrare al Nord in cerca di lavoro, lasciando la sua terra. Sullo sfondo di un paesaggio fortemente evocativo, si incrociano i destini di immigrati ed emigranti.
In Benvenuto in San Salvario di Enrico Verra, un fotografo torinese non riesce a vendere le sue fotografie. Rimasto senza lavoro, decide di trasferirsi nel quartiere economico di San Salvario: qui diventerà il fotografo dei numerosi immigrati che vogliono mandare delle foto personali nei paesi d'origine.

Enrico Verra, Benvenuto in San Salvario


Ivan Fassio

lunedì 25 giugno 2012

T.P.A. - Torino Performance Art


Nathaniel Katz, Getting inside my computer, photo by N. Ruzica Korosec

Un'indagine attraverso esaurimento di schemi collaudati e creazione di nuovi significati. La prima edizione del festival torinese dedicato alla promozione e alla diffusione della Performance Art ha saputo gettare uno sguardo approfondito sulle tendenze avanguardistiche italiane e internazionali

L'arte esce dal supporto che la imprigiona per scavalcare la linea della rappresentazione ed entrare nell'esistenza. In tutti i suoi aspetti più problematici, l'azione performativa si pone sempre come strumento d'avanguardia capace di portare all'esaurimento i più consolidati schemi spettacolari e di fruizione artistica. Da questo svuotamento, le radici di soluzioni future possono riattecchire, attingendo nutrimento da momenti di interazione tra artisti e pubblico. Questa attività congiunta dà luogo a forme di cooperazione, genera conflitti e ha come effetto la costruzione e la condivisione di nuovi significati. La prima edizione del festival torinese dedicato alla promozione e alla diffusione della Performance Art contemporanea, a cura di Manuela Macco, ha saputo gettare, in questo senso, uno sguardo approfondito sulle tendenze avanguardistiche italiane e internazionali.
Chiara Curinga - Erica Fortunato, Soledad, photo by N. Ruzica Korosec
Soledad di Chiara Curinga e Erica Fortunato presenta una particolare riflessione su solitudine e solidarietà. Le due performer inscenano, a turno, due movimenti votati allo sfinimento. Tale annichilimento pare riferirsi non soltanto ad un'analisi sociale, ma al più vasto ambito dei contenuti estetici e della valenza comunitaria dell'operazione artistica.
Nathaniel Katz focalizza il suo lavoro sul rapporto individuale con tecnologia e società. Nata nei termini del racconto personale, la performance si offre come scambio, dono, insegnamento da tramandare. Getting inside my computer è una riflessione sulla coscienza del proprio corpo in contrapposizione all'esistenza contemporanea, inevitabilmente immersa negli schemi informatici. Il duo Arrivsceccarelli, con Veglia di Compleanno, propone una riflessione altrettanto tormentata sul presente. Una sorta di teatro della crudeltà indaga i confini tra convivenza e violenza, generosità e prevaricazione.
Paolo Angelosanto
Manuela Centrone permette ai colori di agire nella performance EStasi. Stendendoli, goccia a goccia, con una siringa su tre fili sospesi in orizzontale a diverse altezze, la performer lascia che essi cadano creando particolari suggestioni sui fogli sottostanti. Burçak Konukman, dalla Turchia, agisce violentemente su scatole di cartone in Hierarchy of Pyramid. Gli strumenti della sua performance vengono piegati fino a poter entrare in un sacco. Una riflessione sul ruolo dell'artista nella società consumistica sembra scaturire da un'azione bizzarra, incentrata sul sofferto versante dell'introversione. For Love Only for Love di Paolo Angelosanto sembra ricreare una distanza tra gesto estetico e percezione comune.
Nella sezione video, Guido Salvini, con Prova di Resistenza, inquadra una mano che tenta di scrivere l'articolo 21 della Costituzione Italiana, mentre un'altra mano cerca ossessivamente di impedirglielo. Michela Depetris, con Let the Sunshine, si interroga in termini tanto concreti quanto psicologici sulla vita biologica. La sua ricerca analizza il tempo vissuto come mera respirazione, riportando al grado zero la dialettica tra rappresentazione e pura esistenza.

Ivan Fassio

T.P.A.
08 / 11 giugno 2012
Torino Performance Art
Cittadellarte-Fondazione Pistoletto, Biella
Green Box / Studio Stefano Giorgi / Accademia Albertina di Belle Arti, Torino


domenica 24 giugno 2012

Le Mani di Bruno Donzelli. Tracce di Identità nel Crogiuolo della Storia


B. Donzelli, Mano di G. de Chirico, Mano di M. Sironi, Studio Fornaresio

La serie delle mani, che possiamo osservare allo Studio Fornaresio di Torino, pone l'accento sull'importanza del sigillo irriproducibile che garantisce la validità dell'opera

Nell'opera di Bruno Donzelli, il piacere della citazione e l'attenzione alla memoria sono strettamente legati alla necessità di lasciare una traccia lungo il percorso artistico, in modo da poter sempre ritrovare una strada del ritorno, una via d'uscita al gioco dei riferimenti. Come in una favola postmoderna o in un esercizio di stile, a giocare le parti dei protagonisti saranno le strutture narrative, gli elementi archetipici dell'intreccio, i moduli ricorrenti del racconto. A questo proposito, già nel 1967, Enrico Crispolti introduceva così l'artista:“È decisamente fabulistico il narrativo di Donzelli: anche la favola è confitta nello spessore del nostro orizzonte quotidiano, del quale intende offrirci la compresente varietà e le molteplici diramazioni.”
Il suo cammino prende le mosse da una sorta di confortante ornamento della sofferenza, in cui i colori e lo sfarzo del circo trattengono le lacrime della tristezza di fondo. La serie di Ormare, in cui i temi dell'impronta e del calco si affacciano su un bizzarro crogiuolo inventivo e dissacrante di rimandi, segna, a partire dagli anni Ottanta, un punto fermo all'interno della poetica dell'autore. Il suo sistema inscena una particolare fagocitosi, che tende ad inglobare e a trasformare un concetto fino a poterlo riproporre secondo codici di lettura originali. La citazione, tanto verosimile dal punto di vista iconografico da sfiorare l'idea del falso, sarà giustificata dalla capacità combinatoria, dalla coniugazione e ridistribuzione dei tasselli ricorrenti di un racconto personale.
Superato il confine dell'irriverenza e oltrepassato il limite sacrale della produzione artistica, Donzelli si interroga sulla possibilità di un ritorno all'unicità dell'esperienza estetica. La serie delle mani, che possiamo osservare allo Studio Fornaresio di Torino, pone l'accento sull'importanza del sigillo irriproducibile che garantisce la validità dell'opera. Nelle tele Mano di Giorgio de Chirico e Mano di Mario Sironi, Donzelli stampa una mano, a testimonianza del grado di autenticità dichiarato dal titolo sottosatante, anch'esso parte integrante dell'operazione artistica. Allo stesso tempo, il palmo aperto indica un divieto, segnala un impedimento per lo spettatore, un'impossibilità di varcare la superficie della tela. Salvaguardare un residuo estremo di sacralità dell'arte sembra essere il nuovo gioco dell'autore. Dopo aver indagato audacemente i campi della riproducibilità di schemi e modi, Donzelli ritorna sui propri passi per mettere in discussione, ancora una volta, il concetto di identità unica e irrisolvibile. L'intenzione dell'autore pare essere la lettura della storia dell'arte seguendo i moduli di una struttura fiabesca, in cui il cammino dei personaggi si muove liberamente tra passato e futuro, in scenari senza tempo, in luoghi tanto lontani da essere possibili.

Ivan Fassio


STUDIO FORNARESIO
Via Le Chiuse, 1/a - 10144  -  Torino


SLAFF – Social Lab Film Festival


Un'inedita proposta culturale coniuga la dimensione artistica dell'arte visiva – il film, il documentario e la fotografia – con la prospettiva sociale creata nell'ambito dell'impegno a tutela dei diritti dei migranti. Le associazioni organizzatrici sono Noix de Kola, che con una scuola di Italiano crea spazi di educazione informale e socializzazione, e Arthesis, che propone l'arte come privilegiato strumento formativo di sviluppo culturale.


Il primo Social Lab Film Festival di Asti proporrà una rassegna cinematografica dedicata al diritto all’accoglienza e all’immigrazione.

Organizzata da due associazioni che operano sul territori astigiano, Noix de Kola e Arthesis, la manifestazione ne ha ereditato i propositi e la missione. Noix de Kola è un’associazione di volontariato che promuove l’integrazione dei cittadini migranti partendo dalla tutela dei diritti e, in particolare, dall’avvicinamento all’apprendimento linguistico. Gestisce un laboratorio sociale di lingua e integrazione, basato sull’insegnamento dell’Italiano e sulla pratica della cittadinanza attiva.Arthesis si muove parallelamente nei campi dell’ideazione e dell’organizzazione di eventi culturali, nella convinzione che l’arte sia un efficace veicolo di svilippo culturale e umano.

Il Festival, che si terrà ad Asti negli ambienti dello Spazio Vinci dal 29 giugno all’1 luglio 2012, ospiterà, oltre alle proiezioni di film e documentari, una mostra fotografica e una serie di interventi e dibattiti. Membro della rete del Caffé Sospeso, “unione di resistenze culturali” che mette in relazione una serie di festival indipendenti, SLAFF si pone, innovativamente, come progetto interattivo. I film da proiettare, infatti, sono stati scelti dagli studenti che hanno frequentato, nell’ultimo anno, le lezioni di Italiano per stranieri.
La tavola rotonda sul diritto d’asilo e sulle esperienze di accoglienza ospiterà gli interventi di Alberto Mossino dell’Associazione PIAM Onlus di Asti, Progetto Integrazione Accoglienza Migranti, piccola associazione laica composta da operatori sociali italiani e immigrati, e di Cristina Molfetta dell’UPM (Ufficio Pastorale Migranti).
Di particolare interesse sarà l’incontro La Migrazione nel Documentario: Diritto alla Libertà della Visione, che sabato 30 presenterà gli interventi, tra gli altri, di Alessandro Gaido di Piemonte Movie e di Enrico Verra, autore e regista del cortoBenvenuto in San Salvario (1999), una delle opere proposte durante la rasssegna.
Tra gli altri film e cortometraggi di maggiore interesse culturale e sociale segnaliamo Articolo 23 (2008) di Vittorio De Seta, Caramel (2007) di Nadine Labari, Mare Chiuso (2012) di Andrea Segre e Stefano Liberti, Soul Kitchen (2009) di Fatih Akin e il documento, fimato da Ermanno Olmi nel 1954, Piccoli Calabresi sul Lago Maggiore. Nuovi Ospiti nella Colonia di Suna.

Ivan Fassio
Il programma del festival è consultabile al sito www.slaff.it

mercoledì 20 giugno 2012

À bientôt – Mostra Personale di Jean Paul Charles presso il Novotel di Corso Giulio Cesare a Torino

Curata da Marco Filippa, con la partecipazione della Galleria En Plein Air di Elena Privitera, la mostra ”À bientôt” sarà inaugurata giovedì 21 giugno, al Novotel di Torino, e sarà visitabile per un mese. Durante il vernissage, l’artista francese si esibirà in una performance dal vivo, dipingendo una lunga striscia di nylan con pneumatico e vernice all’acqua. Seguiranno gli interventi della scrittrice e poetessa torinese Silvia Rosa, accompagnata dalla musicista Elena Bianchi, fisarmonicista del gruppo Abòboras. Al termine della serata, una performance di visual art, a cura di Federico Galetto



L’artista Jean Paul Charles si appoggia a una tradizione e manifesta esplicitamente la volontà di rappresentare il proprio presente, scavando nella concatenazione di eventi che l’hanno generato. Non dipinge: il suo è un linguaggio di immagini, utile a testimoniare esperienze individuali e collettive. L’intervento gestuale ed estemporaneo su cartelloni pubblicitari, fotografie, pannelli e radiografie è il modo privilegiato di proporre una singolare narrazione. Quest’ultima, slacciata dalla classica trama e proposta come una sorta di flusso di fotogrammi, insiste, in una illimitata sequenza mistica, sui concetti di realismo ed espressionismo. Alla concretezza del materiale di supporto, si sovrappongono la spiritualità e il dolore delle immagini create dall’intervento dell’artista. Non vengono proposte particolari letture ideali dei tempi, tutto è giocato all’interno di una grammatica dell’immagine. Una logica della sensibilità si insinua nel flusso delle effigi e dei colori, fino ad accompagnarci nella scoperta di nuove dimensioni. Le prospettive dei paesaggi, le sembianze dei ritratti, il collage di immagini sovrapposte, fotografate, innestate costringono i nostri sensi ad interrogarsi sui concetti di riconoscibilità umana, geografica e storica. Il pulviscolo che scaturisce dalla disgregazione delle figure conserva un minimo di identificabilità, oppure scivola, s’incanala in direzioni sorprendenti e crea nuove illusioni.


Se un’immagine, un’idea, un’azione non fossero, quasi immediatamente, presenti e passate allo stessotempo, il presente non passerebbe mai. Senza questa incompiutezza del contemporaneo, l’estasi dell’eternità ci accoglierebbe, facendoci varcare la soglia della fine dei tempi e rendendo superfluo ogni nostro tentativo di comunicazione. Da questo imperfetto impasto temporale, Jean Paul Charles estrapola i lineamenti del proprio mondo. Attuale è l’intervento pittorico, che invade lo spazio sociale e interferisce sui tradizionali mezzi di comunicazione: cartelloni pubblicitari, social networks, immagini dai mass media.
Le radiografie constatano una malattia collettiva e prescrivono la necessità di guardare oltre. Sono estensioni di un mondo contaminato e, allo stesso tempo, generatrici di un’estetica propria: strumenti e risultati di un’identica visione. Una singolare ecologia della forma e dei contenuti si presenta come inchiesta sull’ambiente abitato dall’uomo e, insieme, come struggente supplica all’incedere efferato del progresso.
Istintiva e gestuale, la pittura esplora l’istante, testimonia l’azione estemporanea di una sensibilità violata. Movimento informe e sofferto, l’atto insegue la figura come destinazione di un messaggio precario: la preghiera.
A partire da questo odierno, sondato nel suo scorrere, muove la ricerca verso il futuro. L’elaborazione digitale e il lavoro di scavo sui cristalli liquidi rintracciano nella tecnologia i pretesti per un’indagine su ogni ulteriore tentativo di resa immediata dell’esperienza. Tutto è giustificato. La soluzione finale è irrimediabilmente rimandata. Nel futuro anteriore di ogni definizione, sempre ad un passo dalla decisione irrevocabile, un nuovo dominio è fondato, in cui esiti e residui di ogni prova tendono ad un comune limite e conquistano lo stesso valore.
Ciò che verrà prima della fine dei tempi, sarà sempre la misteriosa e tremenda insistenza della vita all’interno delle dinamiche del progresso. L’opera, attraverso l’intervento dell’artista, verrà partorita con dolore dalla macchina che la teneva imprigionata. Maieutica delle sensazioni, l’operazione di Jean Paul Charles riporterà alla luce l’enigma dell’esistenza da un mondo meccanicizzato e alienante. Un’indecifrabile dimensione sembrerà scaturire dall’insistente lavoro di lima sul segno e sul colore. Un’ombra e una speranza di rigenerazione si staglieranno dietro ai contorni di ogni possibile immagine.
Ivan Fassio

venerdì 15 giugno 2012

Kirche von Bozen. L'Uso Astratto del Colore nei Paesaggi di Egon Schiele


Un'opera giovanile di Egon Schiele, esposta in permanenza allo Studio Fornaresio di Torino, ci offre la possibilità di fornire una lettura della poetica paesaggistica dell'artista

E. Schiele, Kirche von Bozen, 1906, Studio Fornaresio
Schiele lasciava l'Accademia nel 1909 e proseguiva con la pittura en plein air, che aveva iniziato a frequentare da autodidatta, perché non prevista dal curriculum di studi istituzionale. In quegli anni, ammirava particolarmente l'esperienza artistica di Gustav Klimt. Il suo stile, basato su un uso fortemente accentuato delle superfici ornamentali, non rappresentava soltanto un'originale sintesi di Impressionismo e Simbolismo, ma anche un'anticipazione dell'arte astratta.Tratto distintivo della pittura era un approccio decorativo, nel quale alcuni particolari, come mani e volti, venivano rappresentati naturalisticamente e inseriti all'interno di sfondi paesaggistici simbolici o astratti. Come Henri de Toulouse-Lautrec, anche Klimt non utilizzava il disegno soltanto in funzione preparatoria. Ne sfruttava tutte le qualità intrinseche per poter lavorare su linee e forme attraverso un filtro simbolico. I colori erano funzionali ad una rappresentazione anti-naturalistica.
Prima di poter sviluppare uno stile personale, Egon Schiele doveva liberarsi, almeno in parte, da questa concezione del colore che aveva ereditato da Gustav Klimt. I suoi primi quadri davano l'impressione di un tappeto di forme geometriche pigmentate, composte da un reticolo di linee intrecciate. Realizzati in questo modo, i dipinti ricordavano dei disegni, colorati e ingranditi. La critica del tempo, proprio per questa ragione, accusava Schiele di non essere un vero pittore, ma un semplice disenatore che trasferiva la sua tecnica nella più ampia dimensione della tela. Effettivamente Schiele non era particolarmente interessato alla qualità del colore, considerandolo sempre in stretta relazione alle forme. Subordinava il colore alla linea: era la linea, e non l'effetto cromatico, a definire la forma. Questa tensione espressionistica facilitava la rappresentazione simbolica di condizioni esistenziali. Per tutta la vita, Schiele avrebbe continuato ad approfondire questa poetica, in paesaggi che sarebbero diventati delle allegorie della vita interiore, delle immagini dell'anima.

Ivan Fassio


STUDIO FORNARESIO
Via Le Chiuse, 1/a - 10144  -  Torino

giovedì 14 giugno 2012

Lo Spazio della Modernità. Cronaca di un Viaggio Americano


Due suggestivi documenti ricostruiscono il sodalizio artistico e professionale tra Lucio Fontana ed Ezio Gribaudo. Sullo sfondo, la metallica New York dei concetti spaziali…



Lucio Fontana, nel 1961, in occasione del viaggio che contribuiva a farlo conoscere internazionalmente, restava affascinato dall’atmosfera di New York. Una sorta di Unreal City eliotiana, luogo tremendo e misterioso, in cui proiettare la propria immaginazione e in cui rispecchiare e moltiplicare le proprie scelte stilistiche d’artista. La sua serie di metalli, in quell’anno, veniva intitolata proprio a New York. Grandi lastre d'ottone, percosse da fori, graffi e tagli, volevano simboleggiare, con la loro verticalità, le imponenti costruzioni newyorkesi ed il frenetico pulsare della modernità. Un momento di svolta per Fontana che, un anno prima, aveva reso omaggio alla città di Venezia con una serie di tele ad essa poeticamente ispirate. Durante questo fertile percorso di acquisizione del linguaggio che segnerà gli sviluppi estetici del Novecento, due importanti figure accompagnavano il suo cammino: Ezio Gribaudo, editore ed artista, la cui produzione di quegli anni potrebbe essere letta come un silente contrappunto all’opera di Fontana; ed Enrico Crispolti, giovane critico d’arte e convinto sostenitore del valore innovativo dello spazialismo.
A distanza di cinquant’anni da quegli incontri seminali per la storia dell’arte contemporanea, Skira pubblica, contemporaneamente, due preziosi documenti: il volume Ezio Gribaudo e Lucio Fontana. Cronaca di un viaggio americano a cura di Stefano Cecchetto, con prefazione di Enrico Crispolti, e il dvd Viaggio a New York di Ezio Gribaudo e Francesco Aschieri.
Il libro ripercorre, attraverso l’analisi dei carteggi dell’epoca, il rapporto professionale e, allo stesso tempo, amicale tra Fontana e Gribaudo. Sullo sfondo dell’affermazione internazionale dell’artista, il testo di Cecchetto ripropone i nodi cruciali della sua carriera: dalla scoperta della metodologia critica di Michel Tapié, al rapporto con la gallerista Iris Clert, fino all’incontro con il mercante londinese Robert Tunnard. Il film Viaggio a New York rappresenta, invece, un commento artistico proprio a quel viaggio americano compiuto in occasione dell’uscita del volume Devenir de Fontana di Tapié, curato da Gribaudo per le Edizioni d’Arte Fratelli Pozzo, e della relativa mostra di Fontana alla Galleria Martha Jackson nel novembre 1961. Trascorsi cinquant’anni, Gribaudo ha deciso di mostrarlo. Il gruppo di musica sperimentale Supershock di Paolo Cipriano e Valentina Mitola ha scritto la colonna sonora per questo documento dell’epoca. Chitarra, flauto, tastiere, batteria e il basso di Valentina Mitola, impreziositi dagli interventi vocali di Paolo Cipriano, sottolineano mimeticamente, con veloci cambi di ritmo ed armonie ricorrenti, gli irrequieti movimenti della macchina da presa e i momenti di pausa sognante all’interno del frastuono metropolitano.
Oltre a preziosa testimonianza dell’esperienza artistica di Lucio Fontana, questo filmato rappresenta il tentativo di trasporre su pellicola una serie di intuizioni delle avanguardie figurative degli Anni Sessanta. Alla pari degli esperimenti cinematografici di artisti dell’epoca, le inquadrature di Gribaudo sono alla continua ricerca di particolari associazioni di immagini. L’artista è affascinato dalla resa del movimento. Dissolvenze, chiaroscuri, bruschi cambi di punti di vista diventano privilegiati metodi espressivi per imprimere su pellicola il fermento della metropoli, la fluidità e la lucentezza di vetrate e cartelloni pubblicitari, l’imponenza di bastimenti, areoplani e grattacieli. Ritmo e velocità sembrano essere le coordinate da cui partire: ai momenti di stupita contemplazione sulle strutture della città, si contrappongono inquieti e ossessivi sguardi su immagini isolate, particolari sfocati e assorti, singolari contrasti del paesaggio urbano. L’indugiare ostinato su scorci e su costruzioni di luce contraddistingue una ricerca di scavo metafisico, volto a ricercare la crepa, il gioco di impressioni che possa rivelare uno squarcio di verità. La stessa evoluzione estetica di Lucio Fontana si trova riflessa nelle soluzioni del filmato, negli inquieti segnali che la telecamera riesce a scovare tra le pieghe della contemporaneità.

Ivan Fassio


Ezio Gribaudo e Lucio Fontana
Cronaca di un Viaggio Americano - DVD
Skira, 2011
Isbn (978): 8857212128

Stefano Cecchetto
88 pagine
Skira, 2011
Bilingue (italiano-inglese)
Isbn: 8857212128

domenica 10 giugno 2012

Il mosaico scomposto. Riflessione polifonica sul canone curatoriale


H. U. Obrist, portrait by Virginia Zanetti

Un patchwork di frammenti ripropone la rete di relazioni all’interno del sistema espositivo del secolo scorso. Per esaminare e, infine, decostruire l’inesplorato campo d’azione del curatore artistico

Hans Ulrich Obrist insiste, a partire degli anni Novanta, su un concetto curatoriale polifonico. Ogni sua produzione si trasforma, spontaneamente, in luogo d’incontro, campo di interazione dialettica, mise en abyme di processi cognitivi e percettivi. L’approccio teorico è pretesto per riflettere su visioni periferiche, casualità e contingenza, implicazioni spettacolari. Sempre caratterizzata come fortemente ancorata al presente, ogni proposta espositiva viene concepita nell’esigenza di rispondere ad un’urgenza o a una necessità . Il curatore rinuncia al proprio individualismo e, con un atto di abbandono nei confronti di sistemi collaudati, procede a fianco dell’arte assumendo un ruolo di catalizzatore. Costruttore di legami con il pubblico e di nuovi orizzonti di significato, Obrist cerca di evitare scenari pre-esistenti e di costruire una mostra collettiva a partire da automatismi e coincidenze. In questo senso, sulla scia dei predecessori Suzanne Pagé e Kasper König, riesce ad incarnare una versione di basso profilo del ruolo del curatore e, al tempo stesso, ad assumere radicalmente le intenzioni di ogni artista presentato.
L’idea di destrutturare i tradizionali impianti della curatela, che trova legami con le tendenze artistiche e letterarie contemporanee, ha informato i suoi interventi critici nell’attuale dibattito sul ruolo del critico d’arte. La sua disposizione postmoderna intravede l’ideale spiraglio per una rinascita, proprio nell’impossibilità di riproposizione delle strutture classiche e nella successiva riorganizzazione ludica di modelli obsoleti. La sua Biennale di Lione, curata nel settembre del 2007 insieme a Stéphanie Moisdon, si poneva già come un gioco meta-letterario: la storia di un decennio, non ancora definito, in cui l’intero evento veniva ridotto ad una serie di manuali di istruzioni. L’intervento di Obrist alla Biennale di Venezia del 2003, allo stesso modo, è stato estremamente eterogeneo: una forzatura di ogni possibilità per esaurire, letteralmente, il campo delle sperimentazioni.
Il lavoro di Obrist, proprio in virtù della particolare indagine sul linguaggio, si nutre delle esperienze curatoriali che, a partire dall’inizio del secolo scorso, hanno definito la mostra come dispositivo strutturale e, soprattutto, come momento privilegiato per l’attribuzione di significato ad opere e movimenti artistici. Il volume Breve Storia della Curatela, pubblicato nel settembre 2011 dalla casa editrice milanese Postmedia Books, presenta undici interviste, raccolte da Obrist nel corso degli anni, a importanti curatori del Novecento. Non si tratta, infatti, di un’analisi dei suoi diretti precursori, ma di uno sguardo sulla generazione ancora precedente.
Le domande poste dall’autore denotano la volontà di ritrovare le radici delle proprie intenzioni, seguendo il filo di suggestioni e affinità. La ricerca si focalizza sugli esperimenti di figure indipendenti degli anni Sessanta e Settanta, che hanno proposto innovazioni nelle istituzioni museali europee e americane. Il risultato è un discorso a più voci, ricco di aneddoti e di osservazioni sui nodi cruciali di avanguardie e sperimentazioni.
Di Pontus Hultén, direttore del Moderna Museet di Stoccolma, vengono presi in esame i tentativi di coinvolgimento del pubblico all’interno della struttura museale. Mostre come Poetry Must Be Made By All! e Transform the World hanno segnato il dibattito tra valore dell’istituzione e necessità di ricerca interdisciplinare. Le domande poste da Obrist a Jean Leering, direttore del Van Abbenmuseum ad Eindhoven fino al 1973, prendono in considerazione i rapporti tra architettura e utopia, soffermandosi sull’organizzazione del percorso museale City Plan. L’evento proponeva l’esposizione di un progetto urbanistico ideale per la città di Eindhoven, realizzato da Jacob Bakema e Johannes Van den Broek.
Harald Szeemann, direttore della Kunsthalle di Berna dal 1969, ha riunito, in When Attitudes Become Form: Live in Your Head, artisti post-minimalisti e concettuali, inserendoli per la prima volta in un contesto istituzionale. La sua edizione di Documenta del 1973, presa in considerazione nel libro, è stata un evento seminale della durata di cento giorni, che ha riunito artisti come Richard Serra, Paul Theck, Bruce Nauman e Rebecca Horn.
La conversazione con Seth Siegelaub, mercante d’arte, editore e curatore indipendente, indugia sul concetto di arte come continua critica ai clichés. Individua, nella figura curatoriale, il ruolo di un attore che, nonostante reciti la parte del motivatore distaccato e del generatore di idee, resta il tramite privilegiato per convogliare verso la società l’assoluto significato demistificatorio dell’arte.

Ivan Fassio

Breve storia della curatela
Hans Ulrich Obrist
postmedia books 2011
21,00 euro
224 pp. -- 12 illustrazioni di Virginia Zanetti
isbn 9788874900626

martedì 5 giugno 2012

L’Apocalisse. Appunti per una Teoria della Rivelazione nell’Arte di Ezio Gribaudo e Mariana Paparà


I.

In un'allegoria del disagio, l'elemento fantastico manifesta lo scandalo, l'irruzione illogica - quasi insopportabile - nel mondo della realtà. La rottura dell’ordine è resa con soluzioni incredibili, che fanno leva sull'idea di possibilità estrema. L'immaginazione corre senza freni, accumula azioni su azioni. A questo modo, l’inammissibile irrompe all’interno della legge in un racconto che ignora ogni concatenazione di eventi. La rappresentazione apocalittica non conosce coordinate, si alimenta di simbologie enigmatiche: accatasta immagini amplificate e parole in libertà, artifici esasperati e accostamenti improbabili. I linguaggi scivolano e si accavallano, in una letteratura che si rivolge al futuro con l'intento di reagire al presente. L'odierno è così tanto deprecato da diventare simbolo, inevitabile grumo di immagini e parole. Si adatta soltanto all'interpretazione, non più alla comunicazione.

II.

Nell'Apocalisse di Giovanni, il Drago Rosso ha ceduto il suo trono alla Bestia del Mare. Il Falso Profeta ha pronunciato parole incomprensibili con voce d'agnello. Babilonia la Grande, meretrice, ha cavalcato la bestia dalle sette teste. Precedentemente, all'apertura dei primi Sigilli, i Quattro Cavalieri, tra squilli di trombe, sono già apparsi sulla scena: bianco, rosso, nero e verde. Bianco come la salvezza, rosso come la guerra, nero come la legge, verde come putrefazione e morte. Ognuno è rivelazione fine a se stessa, illuminazione senza oggetto, sinestesia ostentata: le conseguenze del loro simbolismo sorpassano, per definizione, le stesse premesse che li hanno generati. Il poeta della Stagione all'Inferno, secoli dopo, avrebbe tentato di affidare un colore, altrettanto arbitrariamente, a lettere e suoni...

III.

Cielo dilaniato, crepe aperte nel terreno, orizzonte lacerato: è il panorama finale che si presenta ai nostri sensi nel giorno dell'abbandono e dell'illuminazione. Colmi di imbarazzante allegria, ripensiamo alle sublimi e terribili forme che potrebbero sopravvivere sotto il mondo delle apparenze. Testimonianza non è più comunicazione, non è articolazione quest'ansia che ci sovrasta, somiglianze non ricerchiamo più nel riesumato campo dell'intuizione.
Scalpelli e spatole, lime e martelli accantonano, per un attimo, la loro funzione utilitaria e si fanno lenti miracolosamente adatte alla visione estatica. Squarciare un velo per passare. In questa dimensione la scrittura è necessaria, il disegno sicuro, il tracciato inevitabile. La trama della nostra testimonianza, soltanto, sarà inscritta in un orizzonte finora impensabile, in un abisso non ancora sondato dalla nostra percezione. L'arte supererà, ancora una volta, se stessa? Per il momento, inizierà col dire addio all'invadenza della storia, all'insistenza dell'attuale e del quotidiano, all'educato clamore della civiltà...


IV.

Ezio Gribaudo rintraccia immagini della modernità in movimento tra Occidente e Oriente: dinamiche e secolarizzate, perdono il loro valore odierno per riconquistarsi una sacralità. Carovane disorientate, piste insabbiate, cavalieri disarcionati. Del loro messaggio potrebbero restare, col passare del tempo, soltanto le radici del verbo, il segno dell'urgenza e, infine, la testimonianza di una necessità.
Apocalisse: fine, soluzione e, insieme, rivelazione dei sensi. In questo scenario sconfinato, che trascina i sogni oltre il confine del mondo, sono le nude sensazioni a impersonare, guidate dalla memoria e rigorosamente ad occhi chiusi, ogni ruolo.
Porre sulla tela le coordinate di un accecamento è, in questo senso, azione scenica di grande coraggio. Un nuovo alfabeto potrebbe nascere e proliferare da questa geografia, fino ad amalgamarsi in drammaturgie sensibili, liberate dalle catene del pretesto letterario.
Il palco è lo spazio di un quadro. Attori sono lettere e simboli, carte e disegni, figure animali, algidi paesaggi: il loro destino non è la recitazione, ma il rilievo. La capacità di comunicare sta nella fisicità che il regista ha voluto donare loro, mettendoli – letteralmente – in scena, facendoli indugiare e fluttuare a filo della ribalta.
Le prove sono state svolte in silenzio, nella penombra, dirette dalla mano dell’artista: unica testimonianza tattile della nascita dello spettacolo. La scenografia esige il bianco, il negativo degli occhi chiusi e della cecità. L’illuminazione colpisce in modo uniforme l’intera rappresentazione ed è intensa, abbagliante, perturbante.
La vista debutta, come travagliato personaggio, proprio a teatro, luogo che da lei prende il nome. Gli spettatori vedono, in cruda luce, ciò che dovrebbero sentire sui polpastrelli e, allo stesso tempo, si concedono alla consistenza della visione. Nuove immagini sono create per loro, emerse dalla memoria dell’artista, arbitrarie e inquiete. Questi segni simulano la struttura della percezione, recitano la parte degli organi in un’anatomia della sensazione: i rami riversano linfa sulle foglie dei sensi; un drappeggio di carte scivola dalla scrivania; un giardino si risveglia, alla fine dei tempi, nella magia di una nevicata.


V.

Mariana Paparà scosta la cenere che si frappone tra la materia e lo spirito. Ciò che resta della fiamma è il sigillo di un moto di conoscenza, la memoria cicatrizzata di un dolore. Atto di nascita del linguaggio, il rogo ne decreta la fisionomia, marchiandone a fuoco grammatica e destinazione.
Lo scudo è forza. La struttura è resistenza. La tela è protezione: figura archetipica della difesa, conserva sulla propria superficie le abrasioni e le ustioni della battaglia. Simboleggia non soltanto sopravvivenza, ma elevazione conquistata attraverso prove e difficoltà: strumento per riti di passaggio tra rivelazioni e prese di coscienza. Al di là di essa, un incubo cova l’assenza della parola, l’esistenza arretra nel terrore di uno strappo e la storia rimane orfana di ogni sacrificio che, un tempo, la giustificava.
La rappresentazione è questo giacimento riconquistato. Al suo interno, la scrittura di una vita, perduta ogni coordinata e ridotta a segno atrofizzato, resta intrappolata in sostrati dorati, come se si trattasse di uno straordinario rinvenimento negli scavi dell’essere.
L’intuizione riproduce uno scatto dei nervi, la tensione dei muscoli, la faticosa elucubrazione sul significato di una parola, sulla sintassi di un pensiero. Emergono sciabolate lancinanti, ferite di striscio, antiche piaghe rimarginate. Rimangono, in profondità, lividi ematomi, violacee impressioni di un cupo spasmo, fitte incarnite nel corpo della creazione.
Ogni individualità viene oltrepassata: dell’uomo rimane la struttura. Croce, impalcature, linee di forza si appoggiano a un telo esteriore, estremo riparo nei confronti di un’agghiacciante verità. La catastrofe è a un passo. Basterebbe scostare l’ultima pergamena e rimuovere alcuni chiodi arrugginiti per svelarne il tremendo aspetto scarnificato. Ci restano, invece, la consolazione di ogni dissimulazione, il senso recuperato di ogni valore aggiunto, il sofferto e rifondato dominio della realtà.

VI.

Le opere di Ezio Gribaudo e Mariana Paparà rappresentano i poli estremi di un non-luogo. Dal tempio dell’essenza, il primo si affaccia a lanciare messaggi senza tempo all’umanità. La seconda, ferma di fronte all’altare, modella l’intelaiatura dell’esistenza e ne riproduce le trame.
Inviate da un Parnaso contemporaneo e affidate ai messi di un impero universale, le lettere di Ezio Gribaudo hanno perso ogni significato condiviso, per farsi irrequieta testimonianza di infiniti tentativi di comunicazione. Raggiungeranno i propri destinatari, ogniqualvolta la loro assolutezza sarà interpretata come esigenza e opportunità.
Immobili all’ombra del colonnato, le pelli e le tessiture di Mariana Paparà riflettono il vorticoso pulsare dei sensi. Ai pellegrini che si avvicineranno curiosi, daranno la consolante conferma della validità del viaggio intrapreso.
Nomadismo e stanzialità, leggerezza e monumentalità, gioco e conoscenza resteranno intrappolate in queste domande, divenendo indissolubilmente le facce della stessa moneta.



Ivan Fassio