mercoledì 14 settembre 2011

Acrobatica (in tre movimenti)

Claudio Molinari, Mittelpunkt, calcografia, 2010



(a Claudio Molinari)



I)

Acrobazie verticali, trapezio e tuffo avvitato in un bicchiere d’assenzio. Rivoltato, il candelabro, in breve mancanza d’equilibrio, in cupe fondamenta, ha spento i propri fuochi, ha lastricato le sue braccia per comporsi, austero, ai piedi di montagne. Nato per il vespro, per assenza di dipinti, nel tacere del lamento s’è fatto fiero monumento del mattino, stende l’ombra del calice, coglie della luce il limpido e l’amaro, il dolce ottenebrato. Per salire nella cupola ogni genere d’appoggio ci è negato, ci si sente scivolare, fluttuanti nel fulcro dell’inutile leva, accecati dalle vele ben disposte in simmetria.
Non manifesto per il mondo ma più discreto progetto aristocratico, competitivo tiro alla fune contro il canone, per questo era nato. Presto la storia ha fatto del volume un ideogramma, ha scalciato il piedistallo in spregio del passato. Ogni forma ha tinteggiato le sue mura d’un decoro più speciale, lo spettatore ha donato, allucinato nella gamma dei colori, un fugace senso: allo spietato pullulare della città in serie, del fradicio spazio tecnologico.
Tutti a versare il liquore, indistinti in fondo alle balere, nei sacchi a pelo della chiesa, perduti brulicanti nelle periferiche osterie, giorno e notte a spendere il residuo della continua produzione.
Tutto è falso, esiguo refrigerio ci viene dal vi
vere di notte, dove un goccio costa sempre meno. Soltanto in rare mattinate, aprendo gli occhi sul paesaggio, ci chiediamo quale sia la realtà che tutto invade e cela. Incuriositi, rivediamo le colline in lontananza e i monti, ancora più lontani, sono il messaggio dello scorrere del fiume. Ai piedi della sinagoga, nessuna coppa raduna le visioni per il giorno che si crea. Tacito accordo del sarcasmo e dell’ebbrezza sancisce l’inutilità della vita che ci vive. Rimane la nostra risata e il cuor leggero e l’avventura dei notturni.


II)

Ci rubavamo l'un l'altro gli stracci
Nella serata inconsolabile
Nello scompartimento strapieno.

Fare chiasso era il nostro dovere
Anime stanche ammalate –
Infastidire il nostro prossimo
Diventava mestiere.

Eravamo bestie in torride galere
Fumava il nostro treno sgangherato
Che ci trainava nel vuoto
Senza un futuro un passato.
Al nostro collo mai un laccio allentato.


III)



Era un torrente scavato nel legno
Scavalcava l’albero
E raggiungeva le foci.
Sensazione fremente d’acquoso mistero.
Nel ricordo di un sogno
Anch’io mi perforo
E spalanco ferite
Estraggo i miei pezzi
Uno ad uno, organi e ghiandole, strizzo la bile
E disegno un verde cespuglio.
Mi squarto e mi appendo
Mi carico in spalla il costato
Sfilaccio la carne che pende da madide ossa
Il sangue – nelle fogne – lo faccio colare
E col cuore modello un rosso pagliaccio.






Ivan Fassio



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